lunedì 17 novembre 2014

Una commedia a metà. Lisistrata di Andrea Battistini


Pochi fenomeni della nostra civiltà ci risultano più incomprensibili del teatro ateniese del V secolo avanti Cristo: i testi sono a nostra disposizione in esaustive edizioni frutto di secoli di lavorio filologico ed ermeneutico, ma l’originaria valenza, innervata di religione e politica come potevano essere intese in quella che risulta, ad oggi, l’unica democrazia storicamente esistita, ci sfugge in ogni sua parte o quasi. Perciò, quando accade di riportare in scena negli odierni teatri testi ormai inintelligibili ai più, a impresari e registi s’impone la fondamentale questione: come renderli comprensibili? Le risposte sono tante e tali da poter essere ignorate, con grato risparmio di energie per chi legge e chi scrive. Qui ci interessa soltanto la singola risposta tentata da Andrea Battistini con Lisistrata. Colei che scioglie gli eserciti, in scena presso il teatro Sociale di Brescia dal 5 al 23 novembre 2014.

Operazione ambiziosa, portare in scena oggi Aristofane: autore famoso per far sghignazzare sì, ma giusto quei quattro-cinque così appassionati da conoscere in dettaglio la storia, quando non la cronaca minuta, dell’Atene del tempo. Che si offra poi non un Aristofane filologicamente riproposto, ma un d’après Aristophane, poco importa: il volantino, invero un po’ pomposo, annuncia un’“Elaborazione drammaturgica sul tema della pace tratta da Lisistrata, Gli acarnesi, La pace, La festa delle donne, Le donne in parlamento”; insomma, una mescita di quasi tutte le commedie politiche di Aristofane con in più le Tesmoforiazuse (La festa delle donne del volantino): operazione, quindi, doppiamente ambiziosa. Terzo elemento di interesse, l’intento morale rivendicato dallo stesso regista sul volantino e durante la presentazione agli studenti dei licei cittadini avvenuta il 6 novembre: nell’incontro, che l’ha visto parlare dopo gli interventi di tre accademici bresciani (nell’ordine: Maria Pia Pattoni, Guido Milanese e Paolo Bolpagni), il regista-autore ha parlato delle ragioni alla base dell’allestimento, attaccando, dopo un toccante racconto familiare e forse spinto a tenere vivo l’interesse del giovane pubblico, un’orazione su guerra, donne, femminicidi, politici ossessionati dal sesso e dalla droga, Cristo, Marx, meticciato etnico e protocomunismo di Diceopoli la cui perspicuità dimora tutt’ora misteriosa; ma che fa presagire una certa componente attualizzante nel dramma. Tuttavia, la buona volontà del regista è evidente e, sproloqui a parte, il suo scrupolo superiore alla media; è quindi con qualche aspettativa che ci si accosta a questa Lisistrata.

La stessa accoglienza in teatro ammonisce circa gli intenti morali del regista: i quindici minuti antecedenti l’inizio dello spettacolo sono scanditi da una voce salmodiante i principali conflitti dell’umanità dall’antichità a evi più recenti (quanto, ci è impossibile dirlo: vocii e scatarrate del pubblico hanno reso il tutto inudibile a ridosso della rappresentazione). Alla levata del sipario si dipana una vicenda che, a mo’ di arcaica rapsodia, sutura le commedie aristofanee annunciate. Dalle Ecclesiazuse (Le donne al parlamento, sic loquitur volantinus) proviene l’intento delle donne di travestirsi da uomini e infiltrarsi nell’assemblea: sotto la guida di Lisistrata, la preparazione avviene col dovuto contorno di siparietti decisamente riusciti, alcuni presi dai testi aristofanei, altri, parimenti felici, creazioni più o meno originali del regista-autore. La successiva scena, spostata dal palco in platea, seppur ispirata dagli Acarnesi è interamente originale: durante l’assemblea, gli alterchi fra le donne e il militare Cinesia vengono interrotti dall’arrivo del generale Lamaco che, a differenza del monomaniaco guerrafondaio degli Acarnesi, è un gigione armato di elmo da battaglia e hawaiana corona di fiori che civetta con quattro donnacole semisvestite. L’intento attualizzante irrompe qui in maniera decisa: purtroppo il riferimento alla cronaca, con Lamaco che nell’assemblea regala gioielli e collane alle bagasce impegnate ad atteggiarsi a vallette, non riesce a essere qualcosa più che chiassoso qualunquista. Dopo l’uscita delle donne, l’ingresso di Diceopoli e Trigeo (protagonisti, rispettivamente, degli Acarnesi e della Pace) risolleva le sorti di una scena tutto sommato mal riuscita; ma, soprattutto, regala uno dei momenti intertestualmente più belli del dramma: in modo convincente raffigurati come macchiette farsesche, i due contadini contrappongono il disastroso presente della guerra del Peloponneso (“guerra mondiale”) alla trascorsa gloria della battaglia di Maratona (“in cui eravamo noi a inseguire”). Con questo riferimento Battistini mostra di cogliere un elemento fondamentale del pensiero di Aristofane, uso contrapporre la severa Atene vincitrice dei persiani a quella dei suoi contemporanei, accusati con pochi giri di parole di essere “quasi tutti dei rottinculo” (Nuvole, vv. 1098-1099); tanto che, negli Acarnesi il coro era composto da reduci di Maratona, mentre, nelle Rane, il ritorno teatrale alla pietas del maratonomaco Eschilo era proposto quale unica via per la rigenerazione morale della polis.

La delusione delle speranze delle donne permette all’autore l’innesto del tema della Lisistrata: lo sciopero sessuale come mezzo per esasperare gli uomini e spingerli a votare la pace. La scena delle delibere e del relativo giuramento è condotta con l’alternanza fra battute inedite e riprese aristofanee che già aveva fatto la fortuna del prologo; qui, con esito più felice e una maggiore aderenza all’originale, tanto che citata alla lettera è sovente la traduzione di Guido Paduano (pubblicata da BUR nel 1981 e più volte ristampata). L’assalto all’Acropoli occupata dalle donne è avviato da Diceopoli e Trigeo, poi raggiunti dal militare Cinesia e da Lamaco che li dirigono (o, quanto meno, tentano di dirigerli); ed è profluvio di comicità anche fisica, in cui il testo segue l’originale, solo compiacendosi in dettagli sessuali su cui insisteva anche Aristofane, ma con ben altri risultati. Si giunge infine al confronto verbale fra i due opposti: Lamaco e Lisistrata. Il primo, smessi i panni del politico italiano, diventa un generale autorevole, che guarda tutto sommato con realismo alle dinamiche belliche. La caratterizzazione è perfettamente congruente con quanto Aristofane pensava del personaggio storico (lo derise in vitam negli Acarnesi del 426 a.C. come guerrafondaio che ostacola i narcisistici sogni di pace del protagonista, per poi esaltarlo post mortem come eroe nelle Rane del 405), ma la trasformazione di Lamaco da mignottaro in condottiero coraggioso e realista, per quanto bellicoso, suscita qualche imbarazzo tanto nello spettatore quanto nella coerenza della trama. A segnare il primo affondo drammatico è però soprattutto il personaggio di Lisistrata: l’inscalfibile e imperscrutabile, omerica protagonista di Aristofane diviene fulcro di molteplici risvolti patetici, moglie al settimo mese di gravidanza il cui marito, da lungo tempo in guerra, nemmeno sa di essere prossimo alla paternità; in ossequio, mentre si evocano scenari un po’ hippie di resistenza passiva con donne stese davanti alle truppe per impedirne l’avanzata, il dramma cambia repentino, diventando, da comico che era: serio, secondo le evidenti intenzioni dell’autore; ridicolo, secondo l’evidente risultato.

Se la conclusione del primo atto lascia perplessi, l’inizio del secondo riprende il prologo delle Tesmoforiazuse, con le protagoniste intente a cospirare contro il tragediografo Euripide, reo di misoginia. Mentre le donne si accartocciano in discorsi tra il banale e il delirante e lo spettatore si interroga sulla possibile congruenza di ciò con tutto quanto precede (domanda, ahinoi, destinata a rimanere senza risposta), Diceopoli e Trigeo irrompono sulla scena a mo’ dell’aristofaneo Euripide e del suo parente: l’incursione, pur non esilarante come l’originale, semplifica il modello in maniera accessibile a un pubblico non specialistico, salvo poi chiudersi in un nulla di fatto che riporta al canovaccio della Lisistrata. Viene qui da pensare che, per riunire in un’unica opera tutte le tragedie al femminile di Aristofane, l’autore si sia quantomeno fatto prendere la mano: oltre a non costituire l’unica incongruenza logica della trama, l’intermezzo più che divertire finisce per indispettire lo spettatore a causa del patente carattere surrettizio.

Da qui in poi, l’ipotesto è seguito più da presso, con l’eccezione di una nuova inserzione consistente nel dialogo fra Trigeo e la moglie, seguace di Lisistrata: il confronto potrebbe sembrare una ripresa dell’episodio aristofaneo di Mirrine e del marito; in realtà approfondisce l’atmosfera tragica della fine del primo atto, seppur con toni assai più efficaci. Dall’enunciazione politico-utopistica si passa al lirismo esistenziale di una coppia di coniugi ormai in età avanzata, che ricorda le lunghe veglie, lei in casa, lui all’addiaccio sui campi di battaglia, causate dai passati eventi bellici: la penna di Battistini e la recitazione degli attori offrono grande prova di intensità in cui per nulla stonano saltuarie riprese della salacia originale. Questa scena, unitamente alla precedente, aristofanea Lisistrata alle prese con le compagne in fregola che cercano di fuggire dall’Acropoli, costituisce la parte migliore dell’opera: come nel prologo, tragedia e commedia, anzi che essere soltanto giustapposte in scene contigue, risultano intimamente intrecciate. Certo, permangono incongruenze: le donne sfinite dall’astinenza che tentano di disertare sono le stesse che prima lamentavano la lontananza dei mariti in guerra, sicché non si capisce come il loro sciopero sessuale possa sortire effetto; ma le scene funzionano e coinvolgono, quindi l’illogicità è ampiamente perdonabile.

La scena di Mirrine e del marito riceve una nuova rivisitazione, verso il finale, ibridata col confronto fra spartani e ateniesi che chiudeva l’originale: rappresentando le voglie del militare ateniese Cinesia e dello spartano Lacone alle prese con le mogli, l’autore rifunzionalizza i falli posticci propri della tenuta degli attori della commedia arcaica, qui utilizzati per significare l’ormai insostenibile eccitazione dei personaggi maschili. Ciò origina una serie di trovate senza dubbio grevi, ma in tono con l’ipotesto. L’epilogo presenta la riconciliazione fra spartani e ateniesi: se l’originale, in ossequio ai canoni della commedia arcaica, concludeva il tutto con un allegro banchetto e la prospettiva di ripresa delle gioie coniugali, qui l’esultanza è stemperata dalla consapevolezza dei processi storici; viene da dire: del futuro. E la conclusione speranzosa-amara sarebbe anche perfetta, se non fosse annacquata in fastidiosi luoghi comuni pantografati dal finale del primo atto.

Il finale sintetizza quello che costituisce forse il difetto maggiore dell’elaborazione drammaturgica di Battistini: la riflessione, anzi che risaltare dalla composizione dell’azione, si esplicita in modi verbosi che nulla aggiungono alle banalità fiorite un po’ ovunque negli ultimi decenni; la morale, insomma, diventa moralismo. Tuttavia, se da un punto di visto teoretico questa Lisistrata offre ben poco di originale, sul versante scenico gli aspetti da lodare non mancano: a partire da una scrittura capace di fare proprio l’animus aristofaneo (vien però da chiedersi quanto il pubblico sia all’altezza: pronto a sganasciarsi ogniqualvolta i personaggi dicano “cazzo”, ma incapace di cogliere le battute più fini, come la sottilissima e geniale “allora è vero che in questo stato siamo tutti spiati” passata nell’indifferenza generale), fino alle scenografie, la cui sobria essenzialità è assai lontana da ogni minimalismo manierista; lode anche agli attori, tutti in grado di adattarsi a un copione che, soprattutto nelle scene migliori, alterna di continuo farsa e dramma. La riuscita dell’allestimento non può però non risentire delle incongruenze e degli scompensi della scrittura.

Ad ogni modo, per citare un’accademica sopra ricordata: “Al giorno d’oggi, già il semplice mettere in scena Aristofane è un atto coraggioso”; quindi, pur presentando difetti evidenti, la Lisistrata di Andrea Battistini d’après Aristophane non è da bocciare in toto. Molto onesto mestiere vi è stato profuso; qualche pretesa autoriale in meno avrebbe giovato alla riuscita drammatica e, soprattutto, artistica.

 

Matteo Verzeletti

 

mercoledì 10 settembre 2014

FIORI NEL DESERTO - Un amore metropolitano


Ad oggi, la figura del vampiro ha decisamente saturato il mercato, spogliando queste antichissime creature del manto di fascino e mistero che la letteratura in primis aveva saputo tessergli attorno. Un cambiamento silenzioso, quasi notturno. Sembrano lontani anni luce i tempi del Dracula di Francis Ford Coppola, ombra dilaniata da uno straziante ed umano dolore. I vampiri doggi hanno seguito pari passo il cambiamento della società che è andata creandosi intorno a loro; società che li ha nutriti di stereotipi e capelli tinti, trasformandoli in adolescenti immaturi.

Quanto detto sopra, viene tranquillamente demolito da Jim Jarmusch, che nel suo Only lovers left alive (non splendidamente tradotto in Solo gli amanti sopravvivono), ridona peso e dignità ad una categoria in netto declino.

La storia ruota attorno alle esistenze di Adam e Eve (che hanno cessato di cercare il loro Eden, da maturi e consumati viaggiatori del mondo), musicista incredibilmente versatile ed ispirato lui, colta e raffinata lettrice lei. Lui vive a Detroit, scolpendo musica sulle macerie del becero capitalismo umano, lei a Tangeri, inebriata dal fascino del Cafè mille et une nuits. Adam e Eve sono sposati, e sono vampiri. Questa è la storia delle loro esistenze che si intrecciano, in una relazione che colora il mondo da infiniti anni, senza pause. Vedremo anche Ava, sorella minore di Eve, il cui unico obiettivo sembra quello di scompigliare le carte sul tavolo, appena distribuite da un croupier divino. Ma il fulcro sono loro: coloro che sanno amare. Ed è quasi un amore purificatore, che cambia completamente le gerarchie mentali di un mondo schizofrenico, che il tempo ha definitivamente sottomesso alla propria, micidiale logica. Jarmusch racconta con dolce malinconia la deriva culturale a cui ci siamo condannati, facendo attorno a noi terra bruciata, con lunica soluzione di morire assetati lentamente, quasi senza rendercene conto. Adam e Eve diventano allora due messia, che con la loro musica e i loro libri gettano germogli freschi e vivi su questo deserto; perché loro, in fondo, sanno che questo deserto è la culla del loro Amore.
 
E proprio questo, insieme alla morte, è il tema che più mi ha colpito. Sono temi trattati da Jarmusch in maniera totale, completa, avvolgente. Ogni singolo interstizio di questi due grandi umani enigmi è esplorato a colpi di fotogrammi e di citazioni, grandi citazioni. Lamore fra i due protagonisti è eterno, questo è ben chiaro fin da subito, ma lardore scorre rinnovato come il sangue nelle loro vene. Migliaia di km non separano i loro respiri, nella musica di Adam possiamo sentire il palpito del cuore di Eve, e negli occhi di Eve vediamo sempre Adam. Toccherà ad Eve correre dal suo amato in un etereo viaggio notturno (tema immancabile nei film di Jarmusch) per tranquillizzare soprattutto se stessa. Assistiamo ad un amore altamente poetico, silenzioso alla volte, ma capace di scatenare la viscerale creatività di Adam, e di placare le adescanti preoccupazioni di Eve. Ogni nota che fuoriesce dagli strumenti di Lui, diventa parola damore di uneterna poesia per Lei. Ogni pagina letta, sussurrata da Lei, diventa linfa vitale per Lui. Il loro è un abbraccio eterno, che sfugge a qualsiasi legge terrena, ed è dunque fuori dalla nostra comprensione. Ma accanto al disagio che proviamo per lincapacità di spingerci ad un amore così estremo, si fa strada in noi un vago sentimento di tranquillità quasi spirituale, di ringraziamento per questa enorme perla rossa che sembra scuotere il mondo, che sembra gridare al miracolo di un fuoco di speranza che continuerà a scorrere nelle nostre vene.

La morte, dicevamo. La morte è forse il minore dei mali che può assillare un vampiro, che vive isolato in una città in macerie. Invece per Adam è una costante, una tentazione continua, un canto delle sirene che influenza ogni suo passo. Dalla composizione di musica funebre che diventa ossessione, al distacco con cui tratta i pochi esseri umani che vede, che egli vede come cadaveri deambulanti. Tutto per lui è morte: ma questa morte non è data da lui. Di una relazione univoca si tratta. La vitalità che contraddistingue Eve è tesa a nascondere la scia di elegante morte che la vampira porta con sé. La sorella, eterna invidiosa, si macchierà infatti di un peccato gravissimo pur di reclamare quellattenzione che nessuno può darle. Il tutto sotto la Sua tacita responsabilità. Spetta ad Eve allontanare Adam da falsi propositi di suicidio: la plastica tragicità del gesto altro non è che fonte dispirazione per entrambi. A disagio in un mondo che non li soddisfa, rifiutano la strada della Morte, la più semplice. Essi vogliono fare del mondo una costante ricerca. La loro missione è trovare il suolo pronto ad accogliere il loro Amore, la loro disumana speranza.

Il notevole finale, che splendidamente si perde fra una squisita musica orientale e la languida disperazione di una notte Tangerina, unico punto del film in cui la Morte si insinua fra i protagonisti, sembra comunque darci una risposta definitiva a quel Perché tutto questo?: per dimostrarci che possono nascere degli splendidi fiori anche in questo deserto che chiamiamo Terra.

 
Mattia Orizio

mercoledì 30 luglio 2014

WHO RULES THE NIGHT? VIAGGIO NELLA GOTHAM DI KNIGHTFALL


Tutti conoscono Gotham City. La città su cui vigila Batman, luomo pipistrello creato da Bob Kane e Bill Finger (la prima apparizione fu nel maggio del 39), riflette da sempre lanimo del protagonista, immerso in una notte che sembra non avere fine. Perché Gotham City possiede unanima, ecco tutto. Un particolare che fa di una storia un capolavoro è proprio questo: uno sfondo oserei dire dinamico. Batman è leroe che sin da piccolo mi ha regalato le emozioni più belle, perché non è mai stato dipinto, nemmeno agli albori, come il classico supereroe senza macchia e senza paura. Particolarità che possiede anche la cittadina su cui vigila il Pipistrello, che ci appare vivibile vista con gli occhi dei cittadini, mentre risulta irrimediabilmente macchiata sotto il cappuccio con le orecchie.
 
Scendiamo nel particolare: la saga di Knightfall prende il via a Peña Duro, luogo di detenzione di massima sicurezza in cui nasce Bane, supercriminale passato alla ribalta grazie alla recente pellicola di Christopher Nolan: The Dark Knight Rises. Il vero nome è sconosciuto a tutti, non interessa neanche noi. Bane diventa di nostro interesse nel momento in cui pone la conquista di Gotham come obiettivo principale della sua carriera criminale. Già, perché nel momento stesso in cui Bane mette piede in città, questa si tinge subito delle tinte più nere che possiate immaginare. Il chiaroscuro di Bruce Wayne lascia lentamente il posto alla più nera oscurità di Bane, in una Gotham che sprofonda ogni giorno nel terrore più assoluto. Persino le famiglie mafiose più potenti si devono arrendere a questa notte che cala inesorabile, in attesa di un barlume di luce e speranza. Luce che non tarda a ridursi a un lumicino, quando Bane, ormai punta di diamante del crimine di Gotham, detronizza Batman rompendogli la schiena (lurlo: I will simply BREAK YOU! riecheggia ancora nelle orecchie degli appassionati) e conquistando, di fatto, la città.
 
Qui tocchiamo il punto più alto del nostro tour: perché mai, nemmeno con i supercriminali più atroci come Joker o Maschera Nera, si era scesi così in basso. Gotham comincia solo ora ad essere il teatro perfetto per la performance di Bane, che si trova perfettamente a suo agio nel ruolo di primo attore. La sua è una devastazione morale oltreché fisica, perché riscrive le regole di sottomissione del modello che Batman aveva rappresentato fino a quel momento. Gotham è sempre stata lamata patria su cui vigila il Pipistrello, in cui dormire sonni tranquilli. Con larrivo di Bane, la città diventa puro terrore psicologico, un luogo che ogni secondo potrebbe gettarti in pasto a colui che ne reclama il potere. Il grido di Bane: I am Bane. This city is mine!, dopo aver distrutto Batman, fa tremare Gotham dalle fondamenta, ridisegnandola come suo territorio di caccia, assolutamente personale: non la chiameremo casa, perché Bane non ha interesse a trovare un luogo da chiamare casa. Di più, la città non è nemmeno un trofeo: Batman la protegge, la cova come fosse una chioccia, senza mai esitare una sola volta ad anteporre il bene di Gotham alla sua sopravvivenza. E Bane conduce il suo gioco di conquista spingendo forte su questo fattore: vuole strappare le radici del Pipistrello, prima di far calare la notte definitiva. Il contrasto luce/ombra che possiamo notare nelle tavole si protrae per lintera storia, alternando scene adrenaliniche nella notte oscura di Gotham e momenti in cui ci viene lasciato un attimo di respiro, sotto le luci al neon delle insegne pubblicitarie o davanti al crepitio del fuoco, momentaneo e falso porto sicuro.
Trema Gotham, trema anche dopo il ritorno di Batman (sotto il costume non ci sarà Bruce Wayne, ancora devastato dalla sonora lezione impartitagli da Bane, ma scopriremo Jean Paul Valley, il biondo erede designato), un Batman nellanimo del quale si è eclissata definitivamente la luce della speranza: per riprendersi Gotham, per ridare Gotham ai suoi cittadini, è necessaria la brutalità più ferina. E la città accoglie nelle tenebre più totali il ritorno del nostro eroe, preparandosi per la resa dei conti.
Il dominio di Bane non è caotico: le scosse di assestamento sono finite, e il nuovo padrone ha intenzione di dominare ogni centimetro quadrato. Arriva addirittura a sentire ogni anima che si aggira per le strade, come se Gotham fosse la sua seconda pelle. Non tarderà a scottarsi, pur nelle tenebre più oscure, al contatto col fuoco della vendetta.
 
Lo scontro finale è giustamente epico. La resa dei conti per la rinascita della città è un concentrato di cattiveria e violenza, da ambo i lati: Gotham sembra imparziale. Le sequenze decisive ci mostrano la città illuminata unicamente dalle esplosioni innescate dal combattimento, che non si chiuderà al sorgere del sole, con il classico happy ending. Bane è un osso duro, divorato dal Venom (la droga di cui è assuefatto, che gli dona una forza sovrumana), che lotta per la supremazia come unico stile di vita, sempre più assetato di vittoria e dominio morale. Gotham si prepara ad un nuovo terremoto, lennesimo: le consacrazione definitiva del più grande teatro criminale, o il ritorno della notte più bella, quella del pipistrello. 
 
Passata la tempesta, può tornare il sereno? Non scherziamo: al biondo pipistrello il nuovo costume piace assai; egli si nutre del terrore dei criminali, instillato con sapiente pazienza, proprio come Bane si nutriva, fino a poco prima, del terrore di unintera città, di comuni cittadini. E Gotham fatica ad accettare questo nuovo regno, in costante bilico fra carezze e schiaffi,  senza che Batman sia più il porto sicuro in cui riparare. Ma cosa accadrà quando Bruce Wayne, il legittimo tutore della notte di Gotham, tornerà per riprendere il suo posto? Sarà rissa, senza fronzoli: i fantasmi di Jean Paul Valley, la tenacia Bruce Wayne, one on one. Ma se da una parte abbiamo il taumaturgo di Gotham, lunico che con il suo tocco può rendere abitabile loscurità (e il sorriso carico di riconoscenza degli abitanti della City, ogni qualvolta vedano il pipistrello ne è la palese testimonianza), dallaltra abbiamo lirruenza spropositata della bionda gioventù: limmagine che Valley dà di se stesso è quella di un giocatore dazzardo in una notturna bisca che, pur di non dividere la posta con laccondiscendente avversario, tiri il dado dieci, cento e mille volte; ottenendo sempre lo stesso numero. Potrebbe tirare in eterno, fino a spolpare del tutto la carcassa della fortuna che già gli avevo regalato la possibilità di essere lEroe ad interim. Jean Paul Valley vuole tutto: vuole il costume, vuole lidentità, vuole la città. Volere che odora di perdizione. Ma la città, la città pulsa; la città ama Bruce Wayne, ed ha già scelto. In fondo, se dovessimo pesare differenze e somiglianze fra il biondo e precario Batman e Bane, la bilancia penderebbe di netto verso le seconde.
 
Gotham è viva, e lotta segretamente per tornare a lanciarsi fra le braccia di Batman, quello vero, lunico dominatore della notte. E noi insieme a lui.

 
Mattia Orizio