A dispetto dell’ambientazione, The
Revenant non è un film western. Non è nemmeno un film drammatico, una storia
di passioni solo umane, sebbene prenda a prestito dal romanzo di Michael Punke
la vicenda della vendetta del trapper Hugh Glass. The Revenant è una meditazione poetica sulla natura: i movimenti di
camera, il montaggio, il tappeto sonoro, tutto concorre a immergere lo
spettatore in un’atmosfera di bellezza primordiale.
Questa bellezza è uno scandalo per il sentimentalismo odierno, poiché è
inseparabile dalla dura realtà della sopravvivenza e della lotta per la vita.
Il film rivela un mondo dove a prima vista non c’è differenza tra uomo e
animale: il protagonista è attaccato a suo figlio come lo è ai suoi cuccioli
l’orsa che lo aggredisce. Vestito della pelle dell’animale, Glass darà la
caccia alla sua preda, Fitzgerald, l’assassino del figlio. Questo mondo
elementare è il mondo che l’essere umano abita da sempre, in verità, dalla
preistoria in avanti: il mondo in cui “siamo tutti dei selvaggi” (così scrivono
i francesi sul corpo del Pawnee ucciso, descrivendo involontariamente sé
stessi). Qui sembra vincere la concezione estrema di Fitzgerald, che in nome
del tornaconto personale mente, tradisce, uccide. Non a caso il suo mito
fondatore è il racconto di come suo padre trovò dio in uno scoiattolo… e lo mangiò!
Tuttavia Fitzgerald, nella sua meschinità, ignora proprio ciò che il film
mostra di continuo: la natura è materia e insieme meraviglia, è il miracolo
perpetuo di una durezza che trascolora in purezza. Miracolo di cui l’uomo è
custode, poiché solo l’uomo tra i viventi può vederlo. Glass arriva a vedere, e
difatti il suo viaggio di corpo agonizzante diventa un percorso di
purificazione dello spirito. Colui che sembrava retrocesso a un irrequieto
cavernicolo alle prese con la pietra focaia, incomincia ad ammirare la natura,
e allora il suo volto si trasfigura nelle fattezze di un profeta biblico.
“Non ho più paura di morire, sono già morto”, dice il protagonista a un
certo punto. La frase significa più di quanto sembri: Glass ha subito qualcosa
di simile a un’iniziazione, un’esperienza di morte personale e rinascita a un
altro livello. Tanto più che alla contemplazione della natura ha fatto seguito
la visione onirica del mondo dei morti. (Non ha forse sognato di incontrare il
figlio tra le sublimi rovine di una chiesa?) Glass ha visto la realtà ammaliante
e misteriosa dell’universo, e adesso prova una sorta di indifferenza verso la
propria vita. Sarà proprio questo distacco estremo a dargli le ultime forze per
portare a termine la sua vendetta.
Poi, però, tutte le circostanze convergono in un punto, tutte le avventure
del caso rivelano un disegno. Una spirale, forse, come l’incisione sulla
borraccia capitata davanti a Fitzgerald, segno che il suo nemico vive e lo sta
cercando. Nel momento finale, Glass ha l’illuminazione definitiva, già
suggerita dalle parole del Pawnee solitario “la vendetta è nelle mani di Dio”:
la natura segue il suo corso, ogni cosa è parte di un ordine superiore. Glass
lascia andare Fitzgerald alle correnti del fiume, verso i temuti Arikara, che
così possono concludere lo scalpo iniziato anni addietro; la tribù risparmia
invece Glass, poiché ha salvato la loro principessa (senza sapere chi fosse). Tutto
torna, tutto è compiuto: nelle mani di Dio si riuniscono vendetta e
misericordia. Al protagonista non resta che ricongiungersi alla divinità: il
suo ultimo respiro apre i titoli di coda, che finiscono in una folata di vento.
Un unico soffio divino attraversa la natura.
Massimiliano Peroni