mercoledì 30 marzo 2016

COME TU DORMISSI DOPO IL PRANZO


Lo sguardo di terrore dipinto sul volto di un condannato a morte, che guarda gli ultimi granelli di sabbia in una clessidra, gli ultimi granelli della sua vita che si infilano in quella impietosa fenditura e scivolano inesorabili verso l’oblio, verso la dissoluzione. Tale è la maschera che indossa il giovanissimo Claudio al principio dell’atto terzo in “Measure for Measure”, apice del problem play shakespeariano. Il disonore, il disonore di aver violato l’amata Giulietta prima di convolare con lei a giuste nozze è il motore della serie di rapidi e funesti eventi che getta lo sventurato fra le braccia del boia. Non più di ventiquattro ore lo separano dal capestro, dal corso di una giustizia assoluta che non ammette deroghe. E dunque la rapace stretta della disperazione, che attanaglia ogni muscolo di Claudio, che gli avvelena il cervello e lo getta tra i flutti della speranza e dello sconforto, alla mercé d’un senso di sopravvivenza ottenebrato dall’afflizione. A mitigare parzialmente questo stato di fatale angoscia del giovane giungono le parole di Frà Ludovico, deus ex machina dell’intera vicenda: sotto il saio del frate si nasconde infatti il Duca di Vienna, unica autorità a poter disporre della vita di Claudio, sulla base della rigorosa legge cristiana. Che senso avrebbe vivere una vita che non farebbe altro se non inseguire la morte, passo dopo passo, con ostinazione di segugio? Val la pena vivere una vita mutila d’onore, dilaniata dal peccato, macchiata dalla colpa? Claudio sarebbe condannato a portare quella maschera che orribilmente indossa in carcere anche per le vie del mondo.

 
“… Il tuo riposo

è il sonno; e tu temi la morte, stupida,

che è sonno e niente più. Tu non sei tu,

perché non hai sostanza, sei un insieme

di atomi, sei polvere. Tu ignori

cos’è la gioia, perché vuoi con rabbia

ciò che non hai, e ciò che è tuo lo perdi.”[1]

 
Ma il buon Claudio,  cui la vecchiaia ancora non ha strappato i giovani petali, s’aggrappa alla vita con rabbia e ostinazione, come farebbe qualsiasi giovane che appena intravede le gioie che la scoperta del mondo offre; questo nonostante pronunci davanti al Duca parole di rinuncia, parole ammantate di maturità ma profonde come il terrore causato dal pensiero di abbandonare l’anima al giudizio di Dio. Anche una speranza, pur aleatoria e contaminata, irrimediabilmente contaminata, è pur sempre speranza, agli occhi di Claudio. Siamo ancora al primo stadio della disperazione: i sensi all’erta ancorano il giovane alla realtà, in uno stato di fiduciosa attesa. “Deve pur arrivare qualcuno a salvarmi, un peccato sì veniale non può portare al patibolo”: questo pensa certamente Claudio. Una colpa tanto piccola, una punizione tanto greve. C’è un solo nome, per questo: ingiustizia.

 
“C’è un’altra medicina? Ai disgraziati

non resta che sperare. Mi preparo

a morire. Ma spero di campare.”

 
Ecco, la parola magica: disgraziato (miserable nell’originale). Claudio si sente vittima della malasorte. Nel profondo del suo animo, in quella paurosa oscurità ove si sta per stabilire la morte, egli non si sente colpevole. O almeno, non fino al punto da meritare il capestro. Il discorso del Duca batterà proprio su questo tasto: la vita è vita soltanto per uno spirito limpido, che si dedica ad attività che lo elevino al Cielo. Questo attaccamento mostrato dal giovane appare, sotto la luce di questo discorso, quasi lascivo, vergognoso. Il ciclo dell’uomo è così breve, che sprecarlo in attività deprecabili è veramente da stolti. Wasted, è il termine che rende perfettamente la sterilità di questo ciclo. Un suono duro, che non ammette repliche. Dopo aver sprecato, non si può fare ammenda: il tempo trascorso non si può riavere. E così quei granelli di sabbia, a cui il giovane aveva affidato la propria vita, rappresentano ora la sua resa. Non resta che abbracciare la morte.

 
“… la tua schiena s’incurva come un asino

sotto il peso dell’oro, ma alla fine

è la morte che scarica i lingotti.”

 
Parole a cui è impossibile replicare. Ma la pietra tombale, posata su ogni possibile afflato vitale di Claudio, arriva dalle ultime parole che il Duca scolpisce sul caldo marmo delle lacrime del giovane:

 
“Tu non hai giovinezza né vecchiaia

ma solo quella lunga sonnolenza

del dopopranzo in cui le sogni entrambe,

perché la tua famosa giovinezza

si fa strada se chiede un po’ d’appoggio

alla tremante età dei paralitici;

e chi è ricco e decrepito, chi è vecchio,

non ha più desideri, non ha braccia

per godersi il denaro che può spendere.”

 
A Claudio, ormai naufrago nel mare in tempesta di un destino indubitabile e non procrastinabile, non resta che pronunciare il proprio devastante epitaffio: “Così sia”. In un angolo buio di quella gagliarda speranza che coltivava prima dell’incontro col Duca, annodato con i sottili fili della colpa, lo attende il capestro.

 

Mattia Orizio




[1] Tutte le citazioni dell’articolo sono tratte dal volume “Misura per misura”, Einaudi, 1992, traduzione di Cesare Garboli.