Lo sguardo di terrore dipinto sul
volto di un condannato a morte, che guarda gli ultimi granelli di sabbia in una
clessidra, gli ultimi granelli della sua vita che si infilano in quella
impietosa fenditura e scivolano inesorabili verso l’oblio, verso la
dissoluzione. Tale è la maschera che indossa il giovanissimo Claudio al
principio dell’atto terzo in “Measure for Measure”, apice del problem play shakespeariano.
Il disonore, il disonore di aver violato l’amata Giulietta prima di convolare
con lei a giuste nozze è il motore della serie di rapidi e funesti eventi che
getta lo sventurato fra le braccia del boia. Non più di ventiquattro ore lo
separano dal capestro, dal corso di una giustizia assoluta che non ammette deroghe.
E dunque la rapace stretta della disperazione, che attanaglia ogni muscolo di
Claudio, che gli avvelena il cervello e lo getta tra i flutti della speranza e
dello sconforto, alla mercé d’un senso di sopravvivenza ottenebrato
dall’afflizione. A mitigare parzialmente questo stato di fatale angoscia del
giovane giungono le parole di Frà Ludovico, deus ex machina dell’intera
vicenda: sotto il saio del frate si nasconde infatti il Duca di Vienna, unica
autorità a poter disporre della vita di Claudio, sulla base della rigorosa
legge cristiana. Che senso avrebbe vivere una vita che non farebbe altro se non
inseguire la morte, passo dopo passo, con ostinazione di segugio? Val la pena vivere
una vita mutila d’onore, dilaniata dal peccato, macchiata dalla colpa? Claudio
sarebbe condannato a portare quella maschera che orribilmente indossa in
carcere anche per le vie del mondo.
“… Il tuo riposo
è il sonno; e tu temi la morte,
stupida,
che è sonno e niente più. Tu non sei tu,
perché non hai sostanza, sei un
insieme
di atomi, sei polvere. Tu ignori
cos’è la gioia, perché vuoi con rabbia
Ma il buon Claudio, cui la vecchiaia ancora non ha strappato i
giovani petali, s’aggrappa alla vita con rabbia e ostinazione, come farebbe
qualsiasi giovane che appena intravede le gioie che la scoperta del mondo
offre; questo nonostante pronunci davanti al Duca parole di rinuncia, parole ammantate
di maturità ma profonde come il terrore causato dal pensiero di abbandonare
l’anima al giudizio di Dio. Anche una speranza, pur aleatoria e contaminata,
irrimediabilmente contaminata, è pur sempre speranza, agli occhi di Claudio.
Siamo ancora al primo stadio della disperazione: i sensi all’erta ancorano il
giovane alla realtà, in uno stato di fiduciosa attesa. “Deve pur arrivare
qualcuno a salvarmi, un peccato sì veniale non può portare al patibolo”: questo
pensa certamente Claudio. Una colpa tanto piccola, una punizione tanto greve.
C’è un solo nome, per questo: ingiustizia.
non resta che sperare. Mi preparo
a morire. Ma spero di campare.”
Ecco, la parola magica: disgraziato (miserable
nell’originale). Claudio si sente vittima della malasorte. Nel profondo del suo
animo, in quella paurosa oscurità ove si sta per stabilire la morte, egli non
si sente colpevole. O almeno, non fino al punto da meritare il capestro. Il
discorso del Duca batterà proprio su questo tasto: la vita è vita soltanto per
uno spirito limpido, che si dedica ad attività che lo elevino al Cielo. Questo
attaccamento mostrato dal giovane appare, sotto la luce di questo discorso,
quasi lascivo, vergognoso. Il ciclo dell’uomo è così breve, che sprecarlo in
attività deprecabili è veramente da stolti. Wasted, è il termine che
rende perfettamente la sterilità di questo ciclo. Un suono duro, che non
ammette repliche. Dopo aver sprecato, non si può fare ammenda: il tempo
trascorso non si può riavere. E così quei granelli di sabbia, a cui il giovane
aveva affidato la propria vita, rappresentano ora la sua resa. Non resta che
abbracciare la morte.
sotto il peso dell’oro, ma alla fine
è la morte che scarica i lingotti.”
Parole a cui è impossibile replicare.
Ma la pietra tombale, posata su ogni possibile afflato vitale di Claudio,
arriva dalle ultime parole che il Duca scolpisce sul caldo marmo delle lacrime
del giovane:
ma solo quella lunga sonnolenza
del dopopranzo in cui le sogni
entrambe,
perché la tua famosa giovinezza
si fa strada se chiede un po’
d’appoggio
alla tremante età dei paralitici;
e chi è ricco e decrepito, chi è
vecchio,
non ha più desideri, non ha braccia
per godersi il denaro che può
spendere.”
A Claudio, ormai naufrago nel mare in
tempesta di un destino indubitabile e non procrastinabile, non resta che
pronunciare il proprio devastante epitaffio: “Così sia”. In un angolo
buio di quella gagliarda speranza che coltivava prima dell’incontro col Duca,
annodato con i sottili fili della colpa, lo attende il capestro.
Mattia Orizio
[1] Tutte le citazioni dell’articolo sono tratte dal volume “Misura per
misura”, Einaudi, 1992, traduzione di Cesare Garboli.