A casa faceva freddo, un freddo fuori stagione e
accese la stufa, e sopra un pentolino con della brodaglia leggendo un
biglietto: scusami non ho avuto tempo per
fare di meglio. Alzò le spalle indifferente perchè era una scusa che si
ripeteva, e lui non aveva voglia di occuparsene adesso che si trattava di
iniziare a leggere sul serio; guardò l’orologio e in effetti non era certo
l’ora per andare a letto, troppo presto. Decise di abbandonare regole di ogni
tipo e pensò che sarebbe stato bello starsene un pomeriggio intero e anche la
sera a casa, a leggere. Fuori era uscito di nuovo il sole e non era una ragione
sufficiente per abbandonare l’idea fiorita in testa. Per una volta, pensò,
avrebbe evitato repentini disorientamenti o impulsi troppo impulsivi. La
brodaglia riscaldata gli sembrò eccellente e la finì in pochi minuti perchè
qualcosa o, forse, qualcuno, l’attendeva.
Infatti, il libro era ancora lì dove s’era
incagliato, sotto una libreria piena di ninnoli e altri soprammobili,
inguardabili; il giovane lo estrasse con cura, di danni ne aveva già procurati
e si trattava di recuperare l’affetto perduto: solo provvisoriamente, si disse;
alcune pagine erano di sbieco, altre accartocciate e gli venne spontaneo di
accarezzarle prima di riprendere una necessaria confidenza. Spostò uno dei
soprammobili, centrale, e ci sistemò il libro e decise che non era niente male,
proprio per niente, e che da quel momento avrebbe sostituito nel tempo ciascuno
di quegli oggetti con un libro e alla fine avrebbe avuto una libreria piena di
libri, da ammirare, e il Giudice ne sarebbe stato contento. È certo che lo
avrebbe invitato a casa almeno per un caffè con tutto quello che aveva fatto
per lui, chissà se avrebbe accettato, pensò, in fondo era sempre un ex
detenuto. Passò oltre nel pensiero che si stava complicando e decise che era
sufficiente che ne fosse soddisfatto lui, prima che qualcun altro. Ricordò che
il libro non era suo e c’era da ingegnarsi per ritrovare la ragazza, e anche
questo non gli sembrò un gran problema, gli sarebbe venuto in mente qualcosa di
buono. Ora basta! disse ad alta voce. Il momento solenne era arrivato e
indugiare ancora valeva a ritardare ciò che si sentiva sulla pelle attraverso
sconosciuti pruriti. Si distese sul letto e iniziò a leggere.
Ripartì dalla prima pagina. Lasciando da parte ogni
conteggio dei minuti, si accanì sulle righe iniziali con la convinzione di chi
può farcela; c’avrebbe messo il tempo che gli serviva, si disse gongolante,
tutto il tempo della sua vita, se necessario. E provava a raffigurarsi nella
mente il protagonista e il luogo, per dare un senso reale a quella attività la
cui piena utilità ancora gli sfuggiva. Si era accorto di certe incursioni di
scene e persone a lui famigliari, addirittura momenti dell’infanzia che chissà da
dove erano sbucati, ignorandole per tirare dritto. Non si era accorto, invece,
di un velo che iniziava a pararsi davanti ai suoi occhi, un velo sempre più
spesso che lo catturò trascinandolo con sé in un altro mondo mentre lui pensava
di essere ancora dentro il libro. Povera farfalla prigioniera!
Fece allora uno strano sogno. Era al centro di un
gran salone. Una donna alta e ben messa sedeva su un trono ma non era una
regina né un’imperatrice; era coperta di drappi rossi e azzurri, una
capigliatura enorme che puntava dritta al cielo e teli azzurri le riparavano la
nuca e l’intera testa. Pareva in atteggiamento di attesa con le mani in grembo
e lo sguardo dritto sebbene nessun altro fosse presente nell’ampio salone,
tranne una gallina un po’ distante pronta a fare l’uovo con certi gorgoglii di
accompagnamento, o borbottii che fossero. Lo fanno sempre controvoglia l’uovo e
non mancano di rimarcarlo! Fatto sta che nel silenzio più silenzio, con
l’eccezione che s’è detta, apparve, anticipata da un rumore felpato e discreto,
una fila di valletti, che, in numero di cinque per lato, reggevano un enorme
libro con tanto di grossa rilegatura e segnalibro penzoloni: e non c’era dubbio
che fosse di notevole peso e spessore. I valletti si avvicinarono alla donna
imperiosa, fermandosi in attesa; i suoi occhi traslucidi brillarono
impreziositi, avendoci dentro distese di acqua di terra di arbusti e piante e
fiori, mentre le altre parti del viso non presentavano segni di cambiamento.
Poi, tolse gli anelli lasciandoli cadere, sfilò la collana, sciolse i capelli
appuntati da un bel numero di aggeggi; quindi, allungò le mani e prese in
carico il libro, senza fatica: e lo aprì, a caso. Il giovane avvertì la forza
di un tornado sollevarlo nonostante le sue resistenze e di forza finì dentro
quell’immenso libro, ivi scomparendo. Si svegliò di scatto per ricadere sul
letto e fissare il soffitto che non aveva nulla da dirgli. Era ancora
pomeriggio, sebbene inoltrato, un’ora buona per riprendere la lettura, pensò.
Lesse fino all’alba per addormentarsi di nuovo e poi
leggere ancora, e avanti così per numerosi giorni e settimane, intervallato da
parchi pranzi, e magre cene. A volte gli sembrava di essere vestito delle
pagine di quel libro di 843 pagine tanto c’era dentro, e la difficoltà di
ricordare i nomi e i luoghi lo elettrizzava, e se talvolta tornava indietro
perché un passaggio era più oscuro del solito, altre volte, con maggior
leggerezza, si lasciava trascinare dalle parole e dai fatti ridendo, come chi,
sapendo prossimo l’annegamento, vuole distrarre la vita con grasse risate a
preludio di un prolungamento che non ci sarà. S’intorcigliava nelle sabbie
mobili del racconto come nella sua stessa vita e quando, esausto, decideva per
il sonno, non c’era al mondo persona più felice di lui. Come ho fatto fino ad
oggi senza? disse chiudendolo all’ultima pagina. E lo abbracciò e baciò
ripromettendosi: mai più!
Da quel giorno in poi le letture forsennate si
alternavano alle corse in libreria a rifornirsi. E di cosa? Di libri comprati
per lo più alla rinfusa. All’inizio, senza capo né coda; si faceva incantare da
un colore di copertina, dal tipo di carta, dalle prime parole o dalle ultime;
più in là, rosso in faccia, chiedeva consiglio ai commessi, con una gestualità
accompagnata da parole spesso imbastite in malo modo e per nulla comprensibili,
e loro sorridevano e gli dicevano ma
forse intendi questo?, oppure: ah!
forse ho capito!, fatto sta che non se ne usciva mai a mani vuote, e man
mano che tutti quei libri variopinti prendevano posto sulle scaffalature i
soprammobili finivano nell’immondezzaio, come una reazione a catena. La lettura
imperiosa di quei libri non distoglieva, però, il giovine dall’appuntamento
quotidiano col Giudice Tal dei Tali, cui non aveva inteso rinunciare, pur ripromettendosi
che nulla di quanto accadeva doveva trapelare dalla sua bocca troppo larga. E
così fece. Ogni mattina gli chiedeva della lista e puntuale la risposta era
negativa; mascherava bene la soddisfazione di cui era rimpinzato, e si sforzava
di conservare il suo precedente linguaggio mentre parole più sofisticate e
nuove ed elaborate erano spesso lì lì per sfuggirgli. Per fortuna che gli
incontri erano assai brevi, e il Giudice sempre più laconico, e appena fuori
della porta gli si stampava in viso un sorriso così radioso da lacerare gli
sguardi occasionali.
Una mattina, uscendo dal Palazzo di Giustizia,
sbirciando le novità in vetrina della libreria lì da presso, gli parve di
vedere, come un riflesso di specchi dispettosi, la ragazza del prestito. Oh dio! il libro! gli sovvenne e
s’infilò di corsa. Era proprio lei! Saluti, baci di prammatica, un qualche
iniziale disagio; il ragazzo per mostrare disinvoltura si sistemò col gomito al
primo punto d’appoggio lì a portata di mano; era una pila di libri freschi come
uova di galline che rovesciò sotto il peso squilibrato creando rumore, panico e
un viso rosso di fuoco. Andiamo a bere
una birra, lo strattonò lei di maggiore esperienza. Ma è appena mezzogiorno, fece lui scandalizzato; vedo che non hai imparato niente dal mio
libro! perché lo hai letto vero?, gli disse guardandolo storto; sì-sì, balbettò lui, ma che c’entra con la birra alle dodici;
la ragazza sbuffò: la libertà prima di
ogni altra cosa, declamò, e senza alcun preavviso lo afferrò per un braccio
spingendolo in un portone grosso e di legno scuro appena socchiuso, e una volta
lì dentro lo spinse contro il primo muro nella penombra che incontrò e lo baciò
saporitamente. Nascose le mani nei suoi di capelli baciandolo dappertutto,
anche sulle palpebre e agli angoli della bocca e sul viso, e sulle orecchie e
dietro e sul collo, ed era come infuriata d’amore. Lui, dopo un primo
sbigottimento, lasciò fare per godere di quella scia lasciva salivosa che gli
stuzzicava certi sensi addormentati, e, cosa strana!, gli venivano in mente le
copertine dei libri, e un groviglio di parole provenienti da mille direzioni e
volte a un solo punto, così che il viso di lei e il viso dei libri si
sovrapponevano rendendolo ancora più pieno di un godimento che non avrebbe mai
saputo spiegare, neppure dopo anni, ai suoi numerosi figli che lo ascoltavano,
incantati, leggere loro delle favole arabe e indiane piene di veli e di
misteri. Lei interruppe il dilavamento con la subitaneità dell’inizio,
centrandolo negli occhi raggianti: avevano quattro occhi! Ora possiamo prenderci una birra, gli disse, e senza prendersi per
mano uscirono dall’androne. Tornarono nello stesso posto della prima volta e
lui questa volta parlò e la mise al corrente dei progressi e delle meraviglie e
nacquero terreni di confronto privi di un orizzonte. Poi la invitò ad andare da
lui a riprendersi il libro, e poi a consumare insieme la magra cena, e poi a
condividere il letto e i sogni: quella sera lei dormì per la prima volta nel
letto di un ragazzo che le piaceva molto, con una massa di capelli neri,
fruttuosi, e delle mani dallo splendido tocco, di cui solo ora aveva contezza.
Lui, nello stordimento complessivo si lasciò guidare dagli eventi, così come
aveva imparato dai libri, e fu, per la prima volta, felice.
Nel corso della notte si svegliarono più di una volta
e negli intervalli, pieni di sudore, leggevano a turno ciò che capitava e ciò
che quella nuova biblioteca, non ancora gustosamente rifornita, offriva. Ma
c’era di che accontentarsi. Commentavano, s’accavallavano, ridevano,
polemizzavano, tacitandosi a turno con dei poderosi e lunghi baci, alternando
baci e silenzi come in una delle tante belle poesie di cui colsero il frutto
proibito della conoscenza. Sviscerarono i loro autori preferiti, commovendosene
alle lacrime, s’aggrovigliarono in parole proprie e altrui, svelarono intimi
segreti e sogni, apparendo in una linea lontana, di confine tra cielo e terra,
non già uno stolto futuro quanto un immancabile presente disteso, nudo, sotto
il sole del desiderio. Che arda ciò che manca sì da non bruciare nulla!
Le cose si sistemarono alla meglio e tra i libri da
leggere, i pensieri da curare e la ragazza da frequentare di tempo ne rimaneva
poco, quel minimo indispensabile per onorare l’appuntamento giornaliero col Giudice,
cui quel giovane virgulto teneva; d’altronde, grazie a lui, il meccanismo s’era
voltato a suo favore. Ah se non ci fossero state quelle manette! sante e
benedette!, si trovò a pensare, stupito, una notte intanto che la guardava
dormire e russare, a bocca aperta.
Certo è che poco e male riusciva a nascondere, tra le
pieghe del viso e nell’intrico capelluto, quanto di bello gli capitava. E il
Giudice non mancò di notarlo.
Tu mi nascondi
qualcosa, ragazzo, gli disse a bruciapelo un giorno, qualcosa d’importante, aggiunse dopo una pausa. Il ragazzo replicò
con una negazione per niente convincente, un po’ stiracchiata. Non penserai di farmela, giovinotto,
insistè l’altro che quel giorno non intendeva mollare l’osso. Il giovane
s’agitò sulla sedia, impacciato: è
possibile rimandare questo discorso? gli fece, e la voce roca gli tremò. Il
Giudice bofonchiò un grugnito, appoggiò la schiena alla poltrona e parve
partire per un qualche posto: con la mente. Non c’era più lì e gli occhi
guardavano altrove, e c’era ai lati della bocca un mezzo sorriso: permesso accordato - gli disse
continuando a guardare ciò che solo lui vedeva - e ora vattene, e di corsa pure. Il ragazzo uscì - di corsa, appunto
- ringraziando sinceramente. Il Giudice rimase lì in quella posizione per un
bel pezzo, ma a noi non è dato sapere in alcun modo quanto gli stava accadendo.
Il giorno successivo il ragazzo uscì di casa per
recarsi dal Giudice, determinato a raccontargli ogni cosa, perché secondo lui
era giunto il momento, e per fare sul serio aveva predisposto - ci aveva
lavorato tutta la notte - la lista completa dei libri comprati segnando i letti
dai non-letti. Non aveva tralasciato nulla, neppure certi orrori letterari in
cui s’era imbattuto: era pronto a disvelare tutta la sua verità. Bussò alla
porta una due tre volte ma nessuno gli rispose; chiese informazioni alla prima
segretaria a spasso senza ottenere alcunché: lei non l’aveva visto quel giorno;
bussò ancora e con una quale audacia girò la maniglia e lentamente aprì la
porta: il Giudice non c’era. Non ci credeva, a quello proprio no; un castello
intero si frantumò ai suoi piedi trascinato da una corrente disumana di
pensieri stizzosi e innervati in losche raffigurazioni di nessun ausilio. Girò
i tacchi e se ne andò in preda al panico.
Tornò a casa perché lei era lì ad aspettarlo, e così
fu: era sul letto e leggeva, e a mala pena si accorse del suo rientro e tanto
meno dell’agitazione che l’apprendeva. Il ragazzo esperì mimiche di ogni tipo
per attirare un’urgente attenzione che rimase lì, a mezz’aria come una bandiera
funebre. Prese a sbattere piatti e casseruole e ogni oggetto in mezzo alla via,
quand’eccola appoggiata allo stipite che lo guarda: qualcosa non va?. Fu la loro prima litigata. Niente di tragicomico,
una banale scaramuccia: non lasciò tracce. Dopo poco più di mezzora erano
abbracciati e ridevano, lasciando il senso compiuto dei gesti e delle parole ai
critici o, forse, agli storici. A loro non interessava. Comunque in sintesi il
ragazzo le raccontò del Giudice di cui lei ignorava l’esistenza e l’epilogo
alquanto strano, preoccupante direi,
aggiunse, corrugando la fronte bella. Lei gli spalmò il viso con tale
delicatezza da farlo sorridere intanto che gli occhi di entrambi sprizzavano
ogni genere di lampi, di incerta origine.
Nei giorni seguenti il ragazzo tornò a Palazzo ma del
Giudice nulla si sapeva e nessuno lo aveva più visto, e la cosa che più lo
rattristava era vedere come a nessuno sembrava importare granché di quella
improvvisa scomparsa: era data per cosa naturale. Ma come naturale, gridò un giorno in faccia a un impiegato che si
meravigliava della sua preoccupazione, da
quarant’anni ogni giorno è seduto dietro quella scrivania senza mai un ritardo
e per voi è naturale che da un mese non se ne sappia più nulla?. L’impiegato
faticava a seguirlo nel discorso, mise in mostra uno sguardo più che
interrogativo, poi gli disse, col tono del fratello maggiore, e un bieco
sorriso: è la vita!.
Ma come è la vita, rimuginava il ragazzo, prendendo a
calci tutte le pietre che lo intralciavano nel viale del parco alberato, uno
sparisce così e questa sarebbe la vita? E non era uno qualunque! E mentre si
strizzava il cervello a trovare una risposta per lui soddisfacente, gli venne
un’idea e corse a casa. Lei era sempre lì a fare briciole e sfogliare libri. Ho bisogno di stare da solo, diciamo per due
settimane, non di più, poi ti spiego. Lei lo abbracciò, lasciando cadere
altre briciole e il libro, raccolse le sue cose alla rinfusa e lo rassicurò. Ho bisogno di un piacere però, fece lui;
dimmi, disse lei; vorrei in prestito i tuoi libri più belli,
quelli più importanti, quelli indispensabili, quelli del tutto inutili, quelli
pieni di fantasia e quelli pieni di sola realtà, a tua scelta insindacabile.
Lei acconsentì, a patto che non li facesse cadere né vi apponesse orribili orecchie. L’accordo fu siglato con un
bacio zuppo di saliva, quindi lei di gran carriera andò a casa e tornò indietro
con due valigie pienissime (nell’occasione l’accompagnava un amico fuori dal
comune) e lo lasciò in pace per il tempo richiesto. Lui si chiuse nella camera,
appese fuori un cartello artigianale: NON DISTURBARE PER NESSUNISSIMO MOTIVO,
ed un altro con le regole per passargli il cibo. Chiuse a chiave e si mise al
lavoro. Le ore furono impiegate non soltanto a leggere quell’ammasso informe di
libri, quanto a scovare, seguendo un suo filo del discorso, quanta analogia ci
fosse - se non addirittura similitudine o identità nel peggiore dei casi - tra
il vuoto e la vita: in fondo iniziano entrambi per la medesima lettera, si
disse. Partì dalla lettera v. La
prima parola che gli diede un’indicazione fu voci, e subito dopo verità,
cui si aggiunse, a dispetto, viltà,
e, sempre più accavallate, vanagloria,
volontà, vilipendio (andò a cercare sul vocabolario il significato), vittoria, vista, virtù; si lasciò
prendere dall’entusiasmo correndo freneticamente dietro alle parole, e lettera
per lettera risalì l’alfabeto tutto e con esso i libri per saperne di più su
quel connubio vita/vuoto, una
contraddizione in termini, un paradosso. Ecco cosa gli capitava tra le mani: un
paradosso! Ne aveva sentito parlare di questi paradossi ma che la vita lo
fosse, beh! questa era proprio una novità. Continuò imperterrito il lavoro
ripromesso e via via che leggeva riempiva quaderni di appunti e sfornava teorie
su teorie, e si poneva domande con qualche risposta, poi ci ragionava su quando
sentiva gli occhi chiudersi, e talvolta chiedeva consiglio ai sogni che non
lesinavano scene d’ogni genere, sebbene complicassero il quadro per nulla facile.
I giorni passavano e il termine dato era agli sgoccioli e appena si accorse del
poco che gli restava si fermò un attimo, farfugliò qualcosa per accorgersi,
alfine, con somma meraviglia, che per cercare il vuoto della vita nel frattempo
l’aveva riempita di libri e pensieri così tanti e così fitti che avrebbe potuto
campare di rendita. Qualcosa non gli tornava, il vuoto era diventato pieno e la
vita era sempre lì, perché non gli sembrava proprio d’essere morto. Si pizzicò:
sì, era vivo. Ma se adesso era piena avrebbe dovuto svuotarla di nuovo
altrimenti non c’era altro da metterci e sarebbe morto, e lui non aveva alcuna
intenzione di morire. Si va e si viene, pensò. Guardò orologio e calendario: il
tempo s’era consumato. Ravviò i capelli, sistemò gli abiti e aprì rumorosamente
la porta: lei era lì, puntuale. La prese per mano: vieni ti porto dal Giudice, oggi secondo me c’è. Sotto il sole di
quel giorno si vedevano le occhiaie e i segni dell’incuria ma lui non se ne
incaricò. Salirono raggianti le scale del Palazzo e con una sicurezza
invidiabile la portò davanti alla porta, un bel respiro e fece per bussare ma
venne anticipato: entra ragazzo. Non
se lo fece dire due volte. Il Giudice Tal dei Tali era lì al solito posto come
se non fosse mai sparito. Era questa la
novità allora, gli disse indicandola; non
solo, rispose lui. Si sedettero. Gli balenò al ragazzo di chiedere qualche
spiegazione ma risolse il tutto con un’impercettibile alzata di spalle, in
fondo che importanza avevano troppe spiegazioni, gli interessava di più
l’andirivieni del vuoto e del pieno: gli interessava il paradosso. Ora il
Giudice era lì: come sempre. Il ragazzo tirò fuori dalla tasca un foglio
sgualcito all’inverosimile, brutto a vedersi, e glielo porse. Il Giudice lo
prese con due dita appena, spaventato da quella bruttura, e sistemandosi gli
occhiali lo lesse attentamente, poi si guardarono. Sei stato bravo, gli disse il Giudice, e sembrava che faticasse ad
ammetterlo, questa lista di libri è veramente eccellente,
un giorno mi spiegherai come ci sei arrivato ... un giorno, non adesso. Il
giovane era seriamente soddisfatto. Bene
ora posso darti la mia lista, fece il Giudice; prelevò dalla tasca una
minuscola chiave, aprì un cassetto dello scrittoio e prese una busta. Usò il
prezioso tagliacarte per aprire la busta e ne estrasse un foglio di splendido
biancore: glielo porse. Questa è la mia
lista. Il ragazzo squadrò il foglio avanti e dietro: era completamente
bianco. Il bianco di quel foglio gli riempì il campo visivo e per poco gli sembrò
di essere coperto da neve o da ovatta morbida, e comunque che il mondo fosse
all’improvviso interamente bianco. Passati i cinque minuti di disorientamento,
piegò il foglio e lo ripose nella busta. I due giovani si alzarono: aspettami fuori, per favore, disse lui a
lei. Rimasti soli il giovane cercò di ringraziarlo ma il Giudice gli fece
intendere a chiare lettere che l’aveva già fatto, e il ragazzo questa volta non
capiva, e storse la bocca. Il Giudice si alzò parandoglisi di fronte, gli
appoggiò una mano sulla spalla con un fare amichevole, mai visto prima: grazie alla tua lista ora saprò, finalmente,
quali libri leggere. E lo stupore negli occhi di quel ragazzo è l’ultima
cosa degna di restare impressa.
FINE
Michele Mocciola