mercoledì 30 luglio 2014

WHO RULES THE NIGHT? VIAGGIO NELLA GOTHAM DI KNIGHTFALL


Tutti conoscono Gotham City. La città su cui vigila Batman, luomo pipistrello creato da Bob Kane e Bill Finger (la prima apparizione fu nel maggio del 39), riflette da sempre lanimo del protagonista, immerso in una notte che sembra non avere fine. Perché Gotham City possiede unanima, ecco tutto. Un particolare che fa di una storia un capolavoro è proprio questo: uno sfondo oserei dire dinamico. Batman è leroe che sin da piccolo mi ha regalato le emozioni più belle, perché non è mai stato dipinto, nemmeno agli albori, come il classico supereroe senza macchia e senza paura. Particolarità che possiede anche la cittadina su cui vigila il Pipistrello, che ci appare vivibile vista con gli occhi dei cittadini, mentre risulta irrimediabilmente macchiata sotto il cappuccio con le orecchie.
 
Scendiamo nel particolare: la saga di Knightfall prende il via a Peña Duro, luogo di detenzione di massima sicurezza in cui nasce Bane, supercriminale passato alla ribalta grazie alla recente pellicola di Christopher Nolan: The Dark Knight Rises. Il vero nome è sconosciuto a tutti, non interessa neanche noi. Bane diventa di nostro interesse nel momento in cui pone la conquista di Gotham come obiettivo principale della sua carriera criminale. Già, perché nel momento stesso in cui Bane mette piede in città, questa si tinge subito delle tinte più nere che possiate immaginare. Il chiaroscuro di Bruce Wayne lascia lentamente il posto alla più nera oscurità di Bane, in una Gotham che sprofonda ogni giorno nel terrore più assoluto. Persino le famiglie mafiose più potenti si devono arrendere a questa notte che cala inesorabile, in attesa di un barlume di luce e speranza. Luce che non tarda a ridursi a un lumicino, quando Bane, ormai punta di diamante del crimine di Gotham, detronizza Batman rompendogli la schiena (lurlo: I will simply BREAK YOU! riecheggia ancora nelle orecchie degli appassionati) e conquistando, di fatto, la città.
 
Qui tocchiamo il punto più alto del nostro tour: perché mai, nemmeno con i supercriminali più atroci come Joker o Maschera Nera, si era scesi così in basso. Gotham comincia solo ora ad essere il teatro perfetto per la performance di Bane, che si trova perfettamente a suo agio nel ruolo di primo attore. La sua è una devastazione morale oltreché fisica, perché riscrive le regole di sottomissione del modello che Batman aveva rappresentato fino a quel momento. Gotham è sempre stata lamata patria su cui vigila il Pipistrello, in cui dormire sonni tranquilli. Con larrivo di Bane, la città diventa puro terrore psicologico, un luogo che ogni secondo potrebbe gettarti in pasto a colui che ne reclama il potere. Il grido di Bane: I am Bane. This city is mine!, dopo aver distrutto Batman, fa tremare Gotham dalle fondamenta, ridisegnandola come suo territorio di caccia, assolutamente personale: non la chiameremo casa, perché Bane non ha interesse a trovare un luogo da chiamare casa. Di più, la città non è nemmeno un trofeo: Batman la protegge, la cova come fosse una chioccia, senza mai esitare una sola volta ad anteporre il bene di Gotham alla sua sopravvivenza. E Bane conduce il suo gioco di conquista spingendo forte su questo fattore: vuole strappare le radici del Pipistrello, prima di far calare la notte definitiva. Il contrasto luce/ombra che possiamo notare nelle tavole si protrae per lintera storia, alternando scene adrenaliniche nella notte oscura di Gotham e momenti in cui ci viene lasciato un attimo di respiro, sotto le luci al neon delle insegne pubblicitarie o davanti al crepitio del fuoco, momentaneo e falso porto sicuro.
Trema Gotham, trema anche dopo il ritorno di Batman (sotto il costume non ci sarà Bruce Wayne, ancora devastato dalla sonora lezione impartitagli da Bane, ma scopriremo Jean Paul Valley, il biondo erede designato), un Batman nellanimo del quale si è eclissata definitivamente la luce della speranza: per riprendersi Gotham, per ridare Gotham ai suoi cittadini, è necessaria la brutalità più ferina. E la città accoglie nelle tenebre più totali il ritorno del nostro eroe, preparandosi per la resa dei conti.
Il dominio di Bane non è caotico: le scosse di assestamento sono finite, e il nuovo padrone ha intenzione di dominare ogni centimetro quadrato. Arriva addirittura a sentire ogni anima che si aggira per le strade, come se Gotham fosse la sua seconda pelle. Non tarderà a scottarsi, pur nelle tenebre più oscure, al contatto col fuoco della vendetta.
 
Lo scontro finale è giustamente epico. La resa dei conti per la rinascita della città è un concentrato di cattiveria e violenza, da ambo i lati: Gotham sembra imparziale. Le sequenze decisive ci mostrano la città illuminata unicamente dalle esplosioni innescate dal combattimento, che non si chiuderà al sorgere del sole, con il classico happy ending. Bane è un osso duro, divorato dal Venom (la droga di cui è assuefatto, che gli dona una forza sovrumana), che lotta per la supremazia come unico stile di vita, sempre più assetato di vittoria e dominio morale. Gotham si prepara ad un nuovo terremoto, lennesimo: le consacrazione definitiva del più grande teatro criminale, o il ritorno della notte più bella, quella del pipistrello. 
 
Passata la tempesta, può tornare il sereno? Non scherziamo: al biondo pipistrello il nuovo costume piace assai; egli si nutre del terrore dei criminali, instillato con sapiente pazienza, proprio come Bane si nutriva, fino a poco prima, del terrore di unintera città, di comuni cittadini. E Gotham fatica ad accettare questo nuovo regno, in costante bilico fra carezze e schiaffi,  senza che Batman sia più il porto sicuro in cui riparare. Ma cosa accadrà quando Bruce Wayne, il legittimo tutore della notte di Gotham, tornerà per riprendere il suo posto? Sarà rissa, senza fronzoli: i fantasmi di Jean Paul Valley, la tenacia Bruce Wayne, one on one. Ma se da una parte abbiamo il taumaturgo di Gotham, lunico che con il suo tocco può rendere abitabile loscurità (e il sorriso carico di riconoscenza degli abitanti della City, ogni qualvolta vedano il pipistrello ne è la palese testimonianza), dallaltra abbiamo lirruenza spropositata della bionda gioventù: limmagine che Valley dà di se stesso è quella di un giocatore dazzardo in una notturna bisca che, pur di non dividere la posta con laccondiscendente avversario, tiri il dado dieci, cento e mille volte; ottenendo sempre lo stesso numero. Potrebbe tirare in eterno, fino a spolpare del tutto la carcassa della fortuna che già gli avevo regalato la possibilità di essere lEroe ad interim. Jean Paul Valley vuole tutto: vuole il costume, vuole lidentità, vuole la città. Volere che odora di perdizione. Ma la città, la città pulsa; la città ama Bruce Wayne, ed ha già scelto. In fondo, se dovessimo pesare differenze e somiglianze fra il biondo e precario Batman e Bane, la bilancia penderebbe di netto verso le seconde.
 
Gotham è viva, e lotta segretamente per tornare a lanciarsi fra le braccia di Batman, quello vero, lunico dominatore della notte. E noi insieme a lui.

 
Mattia Orizio

lunedì 7 luglio 2014

LA LISTA (III)


 
 
A casa faceva freddo, un freddo fuori stagione e accese la stufa, e sopra un pentolino con della brodaglia leggendo un biglietto: scusami non ho avuto tempo per fare di meglio. Alzò le spalle indifferente perchè era una scusa che si ripeteva, e lui non aveva voglia di occuparsene adesso che si trattava di iniziare a leggere sul serio; guardò l’orologio e in effetti non era certo l’ora per andare a letto, troppo presto. Decise di abbandonare regole di ogni tipo e pensò che sarebbe stato bello starsene un pomeriggio intero e anche la sera a casa, a leggere. Fuori era uscito di nuovo il sole e non era una ragione sufficiente per abbandonare l’idea fiorita in testa. Per una volta, pensò, avrebbe evitato repentini disorientamenti o impulsi troppo impulsivi. La brodaglia riscaldata gli sembrò eccellente e la finì in pochi minuti perchè qualcosa o, forse, qualcuno, l’attendeva.
Infatti, il libro era ancora lì dove s’era incagliato, sotto una libreria piena di ninnoli e altri soprammobili, inguardabili; il giovane lo estrasse con cura, di danni ne aveva già procurati e si trattava di recuperare l’affetto perduto: solo provvisoriamente, si disse; alcune pagine erano di sbieco, altre accartocciate e gli venne spontaneo di accarezzarle prima di riprendere una necessaria confidenza. Spostò uno dei soprammobili, centrale, e ci sistemò il libro e decise che non era niente male, proprio per niente, e che da quel momento avrebbe sostituito nel tempo ciascuno di quegli oggetti con un libro e alla fine avrebbe avuto una libreria piena di libri, da ammirare, e il Giudice ne sarebbe stato contento. È certo che lo avrebbe invitato a casa almeno per un caffè con tutto quello che aveva fatto per lui, chissà se avrebbe accettato, pensò, in fondo era sempre un ex detenuto. Passò oltre nel pensiero che si stava complicando e decise che era sufficiente che ne fosse soddisfatto lui, prima che qualcun altro. Ricordò che il libro non era suo e c’era da ingegnarsi per ritrovare la ragazza, e anche questo non gli sembrò un gran problema, gli sarebbe venuto in mente qualcosa di buono. Ora basta! disse ad alta voce. Il momento solenne era arrivato e indugiare ancora valeva a ritardare ciò che si sentiva sulla pelle attraverso sconosciuti pruriti. Si distese sul letto e iniziò a leggere.
Ripartì dalla prima pagina. Lasciando da parte ogni conteggio dei minuti, si accanì sulle righe iniziali con la convinzione di chi può farcela; c’avrebbe messo il tempo che gli serviva, si disse gongolante, tutto il tempo della sua vita, se necessario. E provava a raffigurarsi nella mente il protagonista e il luogo, per dare un senso reale a quella attività la cui piena utilità ancora gli sfuggiva. Si era accorto di certe incursioni di scene e persone a lui famigliari, addirittura momenti dell’infanzia che chissà da dove erano sbucati, ignorandole per tirare dritto. Non si era accorto, invece, di un velo che iniziava a pararsi davanti ai suoi occhi, un velo sempre più spesso che lo catturò trascinandolo con sé in un altro mondo mentre lui pensava di essere ancora dentro il libro. Povera farfalla prigioniera!
Fece allora uno strano sogno. Era al centro di un gran salone. Una donna alta e ben messa sedeva su un trono ma non era una regina né un’imperatrice; era coperta di drappi rossi e azzurri, una capigliatura enorme che puntava dritta al cielo e teli azzurri le riparavano la nuca e l’intera testa. Pareva in atteggiamento di attesa con le mani in grembo e lo sguardo dritto sebbene nessun altro fosse presente nell’ampio salone, tranne una gallina un po’ distante pronta a fare l’uovo con certi gorgoglii di accompagnamento, o borbottii che fossero. Lo fanno sempre controvoglia l’uovo e non mancano di rimarcarlo! Fatto sta che nel silenzio più silenzio, con l’eccezione che s’è detta, apparve, anticipata da un rumore felpato e discreto, una fila di valletti, che, in numero di cinque per lato, reggevano un enorme libro con tanto di grossa rilegatura e segnalibro penzoloni: e non c’era dubbio che fosse di notevole peso e spessore. I valletti si avvicinarono alla donna imperiosa, fermandosi in attesa; i suoi occhi traslucidi brillarono impreziositi, avendoci dentro distese di acqua di terra di arbusti e piante e fiori, mentre le altre parti del viso non presentavano segni di cambiamento. Poi, tolse gli anelli lasciandoli cadere, sfilò la collana, sciolse i capelli appuntati da un bel numero di aggeggi; quindi, allungò le mani e prese in carico il libro, senza fatica: e lo aprì, a caso. Il giovane avvertì la forza di un tornado sollevarlo nonostante le sue resistenze e di forza finì dentro quell’immenso libro, ivi scomparendo. Si svegliò di scatto per ricadere sul letto e fissare il soffitto che non aveva nulla da dirgli. Era ancora pomeriggio, sebbene inoltrato, un’ora buona per riprendere la lettura, pensò.
Lesse fino all’alba per addormentarsi di nuovo e poi leggere ancora, e avanti così per numerosi giorni e settimane, intervallato da parchi pranzi, e magre cene. A volte gli sembrava di essere vestito delle pagine di quel libro di 843 pagine tanto c’era dentro, e la difficoltà di ricordare i nomi e i luoghi lo elettrizzava, e se talvolta tornava indietro perché un passaggio era più oscuro del solito, altre volte, con maggior leggerezza, si lasciava trascinare dalle parole e dai fatti ridendo, come chi, sapendo prossimo l’annegamento, vuole distrarre la vita con grasse risate a preludio di un prolungamento che non ci sarà. S’intorcigliava nelle sabbie mobili del racconto come nella sua stessa vita e quando, esausto, decideva per il sonno, non c’era al mondo persona più felice di lui. Come ho fatto fino ad oggi senza? disse chiudendolo all’ultima pagina. E lo abbracciò e baciò ripromettendosi: mai più!
Da quel giorno in poi le letture forsennate si alternavano alle corse in libreria a rifornirsi. E di cosa? Di libri comprati per lo più alla rinfusa. All’inizio, senza capo né coda; si faceva incantare da un colore di copertina, dal tipo di carta, dalle prime parole o dalle ultime; più in là, rosso in faccia, chiedeva consiglio ai commessi, con una gestualità accompagnata da parole spesso imbastite in malo modo e per nulla comprensibili, e loro sorridevano e gli dicevano ma forse intendi questo?, oppure: ah! forse ho capito!, fatto sta che non se ne usciva mai a mani vuote, e man mano che tutti quei libri variopinti prendevano posto sulle scaffalature i soprammobili finivano nell’immondezzaio, come una reazione a catena. La lettura imperiosa di quei libri non distoglieva, però, il giovine dall’appuntamento quotidiano col Giudice Tal dei Tali, cui non aveva inteso rinunciare, pur ripromettendosi che nulla di quanto accadeva doveva trapelare dalla sua bocca troppo larga. E così fece. Ogni mattina gli chiedeva della lista e puntuale la risposta era negativa; mascherava bene la soddisfazione di cui era rimpinzato, e si sforzava di conservare il suo precedente linguaggio mentre parole più sofisticate e nuove ed elaborate erano spesso lì lì per sfuggirgli. Per fortuna che gli incontri erano assai brevi, e il Giudice sempre più laconico, e appena fuori della porta gli si stampava in viso un sorriso così radioso da lacerare gli sguardi occasionali.
Una mattina, uscendo dal Palazzo di Giustizia, sbirciando le novità in vetrina della libreria lì da presso, gli parve di vedere, come un riflesso di specchi dispettosi, la ragazza del prestito. Oh dio! il libro! gli sovvenne e s’infilò di corsa. Era proprio lei! Saluti, baci di prammatica, un qualche iniziale disagio; il ragazzo per mostrare disinvoltura si sistemò col gomito al primo punto d’appoggio lì a portata di mano; era una pila di libri freschi come uova di galline che rovesciò sotto il peso squilibrato creando rumore, panico e un viso rosso di fuoco. Andiamo a bere una birra, lo strattonò lei di maggiore esperienza. Ma è appena mezzogiorno, fece lui scandalizzato; vedo che non hai imparato niente dal mio libro! perché lo hai letto vero?, gli disse guardandolo storto; sì-sì, balbettò lui, ma che c’entra con la birra alle dodici; la ragazza sbuffò: la libertà prima di ogni altra cosa, declamò, e senza alcun preavviso lo afferrò per un braccio spingendolo in un portone grosso e di legno scuro appena socchiuso, e una volta lì dentro lo spinse contro il primo muro nella penombra che incontrò e lo baciò saporitamente. Nascose le mani nei suoi di capelli baciandolo dappertutto, anche sulle palpebre e agli angoli della bocca e sul viso, e sulle orecchie e dietro e sul collo, ed era come infuriata d’amore. Lui, dopo un primo sbigottimento, lasciò fare per godere di quella scia lasciva salivosa che gli stuzzicava certi sensi addormentati, e, cosa strana!, gli venivano in mente le copertine dei libri, e un groviglio di parole provenienti da mille direzioni e volte a un solo punto, così che il viso di lei e il viso dei libri si sovrapponevano rendendolo ancora più pieno di un godimento che non avrebbe mai saputo spiegare, neppure dopo anni, ai suoi numerosi figli che lo ascoltavano, incantati, leggere loro delle favole arabe e indiane piene di veli e di misteri. Lei interruppe il dilavamento con la subitaneità dell’inizio, centrandolo negli occhi raggianti: avevano quattro occhi! Ora possiamo prenderci una birra, gli disse, e senza prendersi per mano uscirono dall’androne. Tornarono nello stesso posto della prima volta e lui questa volta parlò e la mise al corrente dei progressi e delle meraviglie e nacquero terreni di confronto privi di un orizzonte. Poi la invitò ad andare da lui a riprendersi il libro, e poi a consumare insieme la magra cena, e poi a condividere il letto e i sogni: quella sera lei dormì per la prima volta nel letto di un ragazzo che le piaceva molto, con una massa di capelli neri, fruttuosi, e delle mani dallo splendido tocco, di cui solo ora aveva contezza. Lui, nello stordimento complessivo si lasciò guidare dagli eventi, così come aveva imparato dai libri, e fu, per la prima volta, felice.
Nel corso della notte si svegliarono più di una volta e negli intervalli, pieni di sudore, leggevano a turno ciò che capitava e ciò che quella nuova biblioteca, non ancora gustosamente rifornita, offriva. Ma c’era di che accontentarsi. Commentavano, s’accavallavano, ridevano, polemizzavano, tacitandosi a turno con dei poderosi e lunghi baci, alternando baci e silenzi come in una delle tante belle poesie di cui colsero il frutto proibito della conoscenza. Sviscerarono i loro autori preferiti, commovendosene alle lacrime, s’aggrovigliarono in parole proprie e altrui, svelarono intimi segreti e sogni, apparendo in una linea lontana, di confine tra cielo e terra, non già uno stolto futuro quanto un immancabile presente disteso, nudo, sotto il sole del desiderio. Che arda ciò che manca sì da non bruciare nulla!
Le cose si sistemarono alla meglio e tra i libri da leggere, i pensieri da curare e la ragazza da frequentare di tempo ne rimaneva poco, quel minimo indispensabile per onorare l’appuntamento giornaliero col Giudice, cui quel giovane virgulto teneva; d’altronde, grazie a lui, il meccanismo s’era voltato a suo favore. Ah se non ci fossero state quelle manette! sante e benedette!, si trovò a pensare, stupito, una notte intanto che la guardava dormire e russare, a bocca aperta.
Certo è che poco e male riusciva a nascondere, tra le pieghe del viso e nell’intrico capelluto, quanto di bello gli capitava. E il Giudice non mancò di notarlo.
Tu mi nascondi qualcosa, ragazzo, gli disse a bruciapelo un giorno, qualcosa d’importante, aggiunse dopo una pausa. Il ragazzo replicò con una negazione per niente convincente, un po’ stiracchiata. Non penserai di farmela, giovinotto, insistè l’altro che quel giorno non intendeva mollare l’osso. Il giovane s’agitò sulla sedia, impacciato: è possibile rimandare questo discorso? gli fece, e la voce roca gli tremò. Il Giudice bofonchiò un grugnito, appoggiò la schiena alla poltrona e parve partire per un qualche posto: con la mente. Non c’era più lì e gli occhi guardavano altrove, e c’era ai lati della bocca un mezzo sorriso: permesso accordato - gli disse continuando a guardare ciò che solo lui vedeva - e ora vattene, e di corsa pure. Il ragazzo uscì - di corsa, appunto - ringraziando sinceramente. Il Giudice rimase lì in quella posizione per un bel pezzo, ma a noi non è dato sapere in alcun modo quanto gli stava accadendo.
Il giorno successivo il ragazzo uscì di casa per recarsi dal Giudice, determinato a raccontargli ogni cosa, perché secondo lui era giunto il momento, e per fare sul serio aveva predisposto - ci aveva lavorato tutta la notte - la lista completa dei libri comprati segnando i letti dai non-letti. Non aveva tralasciato nulla, neppure certi orrori letterari in cui s’era imbattuto: era pronto a disvelare tutta la sua verità. Bussò alla porta una due tre volte ma nessuno gli rispose; chiese informazioni alla prima segretaria a spasso senza ottenere alcunché: lei non l’aveva visto quel giorno; bussò ancora e con una quale audacia girò la maniglia e lentamente aprì la porta: il Giudice non c’era. Non ci credeva, a quello proprio no; un castello intero si frantumò ai suoi piedi trascinato da una corrente disumana di pensieri stizzosi e innervati in losche raffigurazioni di nessun ausilio. Girò i tacchi e se ne andò in preda al panico.
Tornò a casa perché lei era lì ad aspettarlo, e così fu: era sul letto e leggeva, e a mala pena si accorse del suo rientro e tanto meno dell’agitazione che l’apprendeva. Il ragazzo esperì mimiche di ogni tipo per attirare un’urgente attenzione che rimase lì, a mezz’aria come una bandiera funebre. Prese a sbattere piatti e casseruole e ogni oggetto in mezzo alla via, quand’eccola appoggiata allo stipite che lo guarda: qualcosa non va?. Fu la loro prima litigata. Niente di tragicomico, una banale scaramuccia: non lasciò tracce. Dopo poco più di mezzora erano abbracciati e ridevano, lasciando il senso compiuto dei gesti e delle parole ai critici o, forse, agli storici. A loro non interessava. Comunque in sintesi il ragazzo le raccontò del Giudice di cui lei ignorava l’esistenza e l’epilogo alquanto strano, preoccupante direi, aggiunse, corrugando la fronte bella. Lei gli spalmò il viso con tale delicatezza da farlo sorridere intanto che gli occhi di entrambi sprizzavano ogni genere di lampi, di incerta origine.
Nei giorni seguenti il ragazzo tornò a Palazzo ma del Giudice nulla si sapeva e nessuno lo aveva più visto, e la cosa che più lo rattristava era vedere come a nessuno sembrava importare granché di quella improvvisa scomparsa: era data per cosa naturale. Ma come naturale, gridò un giorno in faccia a un impiegato che si meravigliava della sua preoccupazione, da quarant’anni ogni giorno è seduto dietro quella scrivania senza mai un ritardo e per voi è naturale che da un mese non se ne sappia più nulla?. L’impiegato faticava a seguirlo nel discorso, mise in mostra uno sguardo più che interrogativo, poi gli disse, col tono del fratello maggiore, e un bieco sorriso: è la vita!.
Ma come è la vita, rimuginava il ragazzo, prendendo a calci tutte le pietre che lo intralciavano nel viale del parco alberato, uno sparisce così e questa sarebbe la vita? E non era uno qualunque! E mentre si strizzava il cervello a trovare una risposta per lui soddisfacente, gli venne un’idea e corse a casa. Lei era sempre lì a fare briciole e sfogliare libri. Ho bisogno di stare da solo, diciamo per due settimane, non di più, poi ti spiego. Lei lo abbracciò, lasciando cadere altre briciole e il libro, raccolse le sue cose alla rinfusa e lo rassicurò. Ho bisogno di un piacere però, fece lui; dimmi, disse lei; vorrei in prestito i tuoi libri più belli, quelli più importanti, quelli indispensabili, quelli del tutto inutili, quelli pieni di fantasia e quelli pieni di sola realtà, a tua scelta insindacabile. Lei acconsentì, a patto che non li facesse cadere né vi apponesse orribili orecchie. L’accordo fu siglato con un bacio zuppo di saliva, quindi lei di gran carriera andò a casa e tornò indietro con due valigie pienissime (nell’occasione l’accompagnava un amico fuori dal comune) e lo lasciò in pace per il tempo richiesto. Lui si chiuse nella camera, appese fuori un cartello artigianale: NON DISTURBARE PER NESSUNISSIMO MOTIVO, ed un altro con le regole per passargli il cibo. Chiuse a chiave e si mise al lavoro. Le ore furono impiegate non soltanto a leggere quell’ammasso informe di libri, quanto a scovare, seguendo un suo filo del discorso, quanta analogia ci fosse - se non addirittura similitudine o identità nel peggiore dei casi - tra il vuoto e la vita: in fondo iniziano entrambi per la medesima lettera, si disse. Partì dalla lettera v. La prima parola che gli diede un’indicazione fu voci, e subito dopo verità, cui si aggiunse, a dispetto, viltà, e, sempre più accavallate, vanagloria, volontà, vilipendio (andò a cercare sul vocabolario il significato), vittoria, vista, virtù; si lasciò prendere dall’entusiasmo correndo freneticamente dietro alle parole, e lettera per lettera risalì l’alfabeto tutto e con esso i libri per saperne di più su quel connubio vita/vuoto, una contraddizione in termini, un paradosso. Ecco cosa gli capitava tra le mani: un paradosso! Ne aveva sentito parlare di questi paradossi ma che la vita lo fosse, beh! questa era proprio una novità. Continuò imperterrito il lavoro ripromesso e via via che leggeva riempiva quaderni di appunti e sfornava teorie su teorie, e si poneva domande con qualche risposta, poi ci ragionava su quando sentiva gli occhi chiudersi, e talvolta chiedeva consiglio ai sogni che non lesinavano scene d’ogni genere, sebbene complicassero il quadro per nulla facile. I giorni passavano e il termine dato era agli sgoccioli e appena si accorse del poco che gli restava si fermò un attimo, farfugliò qualcosa per accorgersi, alfine, con somma meraviglia, che per cercare il vuoto della vita nel frattempo l’aveva riempita di libri e pensieri così tanti e così fitti che avrebbe potuto campare di rendita. Qualcosa non gli tornava, il vuoto era diventato pieno e la vita era sempre lì, perché non gli sembrava proprio d’essere morto. Si pizzicò: sì, era vivo. Ma se adesso era piena avrebbe dovuto svuotarla di nuovo altrimenti non c’era altro da metterci e sarebbe morto, e lui non aveva alcuna intenzione di morire. Si va e si viene, pensò. Guardò orologio e calendario: il tempo s’era consumato. Ravviò i capelli, sistemò gli abiti e aprì rumorosamente la porta: lei era lì, puntuale. La prese per mano: vieni ti porto dal Giudice, oggi secondo me c’è. Sotto il sole di quel giorno si vedevano le occhiaie e i segni dell’incuria ma lui non se ne incaricò. Salirono raggianti le scale del Palazzo e con una sicurezza invidiabile la portò davanti alla porta, un bel respiro e fece per bussare ma venne anticipato: entra ragazzo. Non se lo fece dire due volte. Il Giudice Tal dei Tali era lì al solito posto come se non fosse mai sparito. Era questa la novità allora, gli disse indicandola; non solo, rispose lui. Si sedettero. Gli balenò al ragazzo di chiedere qualche spiegazione ma risolse il tutto con un’impercettibile alzata di spalle, in fondo che importanza avevano troppe spiegazioni, gli interessava di più l’andirivieni del vuoto e del pieno: gli interessava il paradosso. Ora il Giudice era lì: come sempre. Il ragazzo tirò fuori dalla tasca un foglio sgualcito all’inverosimile, brutto a vedersi, e glielo porse. Il Giudice lo prese con due dita appena, spaventato da quella bruttura, e sistemandosi gli occhiali lo lesse attentamente, poi si guardarono. Sei stato bravo, gli disse il Giudice, e sembrava che faticasse ad ammetterlo,  questa lista di libri è veramente eccellente, un giorno mi spiegherai come ci sei arrivato ... un giorno, non adesso. Il giovane era seriamente soddisfatto. Bene ora posso darti la mia lista, fece il Giudice; prelevò dalla tasca una minuscola chiave, aprì un cassetto dello scrittoio e prese una busta. Usò il prezioso tagliacarte per aprire la busta e ne estrasse un foglio di splendido biancore: glielo porse. Questa è la mia lista. Il ragazzo squadrò il foglio avanti e dietro: era completamente bianco. Il bianco di quel foglio gli riempì il campo visivo e per poco gli sembrò di essere coperto da neve o da ovatta morbida, e comunque che il mondo fosse all’improvviso interamente bianco. Passati i cinque minuti di disorientamento, piegò il foglio e lo ripose nella busta. I due giovani si alzarono: aspettami fuori, per favore, disse lui a lei. Rimasti soli il giovane cercò di ringraziarlo ma il Giudice gli fece intendere a chiare lettere che l’aveva già fatto, e il ragazzo questa volta non capiva, e storse la bocca. Il Giudice si alzò parandoglisi di fronte, gli appoggiò una mano sulla spalla con un fare amichevole, mai visto prima: grazie alla tua lista ora saprò, finalmente, quali libri leggere. E lo stupore negli occhi di quel ragazzo è l’ultima cosa degna di restare impressa.
 
 
FINE

 
Michele Mocciola