Pochi fenomeni della nostra civiltà ci risultano più incomprensibili
del teatro ateniese del V secolo avanti Cristo: i testi sono a nostra
disposizione in esaustive edizioni frutto di secoli di lavorio filologico ed
ermeneutico, ma l’originaria valenza, innervata di religione e politica come
potevano essere intese in quella che risulta, ad oggi, l’unica democrazia
storicamente esistita, ci sfugge in ogni sua parte o quasi. Perciò, quando
accade di riportare in scena negli odierni teatri testi ormai inintelligibili
ai più, a impresari e registi s’impone la fondamentale questione: come renderli
comprensibili? Le risposte sono tante e tali da poter essere ignorate, con
grato risparmio di energie per chi legge e chi scrive. Qui ci interessa
soltanto la singola risposta tentata da Andrea Battistini con Lisistrata. Colei che scioglie gli eserciti,
in scena presso il teatro Sociale di Brescia dal 5 al 23 novembre 2014.
Operazione ambiziosa, portare in scena oggi Aristofane: autore famoso
per far sghignazzare sì, ma giusto quei quattro-cinque così appassionati da
conoscere in dettaglio la storia, quando non la cronaca minuta, dell’Atene del
tempo. Che si offra poi non un Aristofane filologicamente riproposto, ma un d’après Aristophane, poco importa: il
volantino, invero un po’ pomposo, annuncia un’“Elaborazione drammaturgica sul
tema della pace tratta da Lisistrata,
Gli acarnesi, La pace, La festa delle donne,
Le donne in parlamento”; insomma, una
mescita di quasi tutte le commedie politiche di Aristofane con in più le Tesmoforiazuse (La festa delle donne del volantino): operazione, quindi,
doppiamente ambiziosa. Terzo elemento di interesse, l’intento morale
rivendicato dallo stesso regista sul volantino e durante la presentazione agli
studenti dei licei cittadini avvenuta il 6 novembre: nell’incontro, che l’ha
visto parlare dopo gli interventi di tre accademici bresciani (nell’ordine:
Maria Pia Pattoni, Guido Milanese e Paolo Bolpagni), il regista-autore ha
parlato delle ragioni alla base dell’allestimento, attaccando, dopo un toccante
racconto familiare e forse spinto a tenere vivo l’interesse del giovane
pubblico, un’orazione su guerra, donne, femminicidi, politici ossessionati dal
sesso e dalla droga, Cristo, Marx, meticciato etnico e protocomunismo di
Diceopoli la cui perspicuità dimora tutt’ora misteriosa; ma che fa presagire
una certa componente attualizzante nel dramma. Tuttavia, la buona volontà del
regista è evidente e, sproloqui a parte, il suo scrupolo superiore alla media;
è quindi con qualche aspettativa che ci si accosta a questa Lisistrata.
La stessa accoglienza in teatro ammonisce circa gli intenti morali del
regista: i quindici minuti antecedenti l’inizio dello spettacolo sono scanditi
da una voce salmodiante i principali conflitti dell’umanità dall’antichità a
evi più recenti (quanto, ci è impossibile dirlo: vocii e scatarrate del
pubblico hanno reso il tutto inudibile a ridosso della rappresentazione). Alla
levata del sipario si dipana una vicenda che, a mo’ di arcaica rapsodia, sutura
le commedie aristofanee annunciate. Dalle Ecclesiazuse
(Le donne al parlamento, sic
loquitur volantinus) proviene l’intento delle donne di travestirsi da uomini e
infiltrarsi nell’assemblea: sotto la guida di Lisistrata, la preparazione
avviene col dovuto contorno di siparietti decisamente riusciti, alcuni presi
dai testi aristofanei, altri, parimenti felici, creazioni più o meno originali
del regista-autore. La successiva scena, spostata dal palco in platea, seppur
ispirata dagli Acarnesi è interamente
originale: durante l’assemblea, gli alterchi fra le donne e il militare Cinesia
vengono interrotti dall’arrivo del generale Lamaco che, a differenza del
monomaniaco guerrafondaio degli Acarnesi,
è un gigione armato di elmo da battaglia e hawaiana corona di fiori che civetta
con quattro donnacole semisvestite. L’intento attualizzante irrompe qui in
maniera decisa: purtroppo il riferimento alla cronaca, con Lamaco che
nell’assemblea regala gioielli e collane alle bagasce impegnate ad atteggiarsi
a vallette, non riesce a essere qualcosa più che chiassoso qualunquista. Dopo
l’uscita delle donne, l’ingresso di Diceopoli e Trigeo (protagonisti,
rispettivamente, degli Acarnesi e
della Pace) risolleva le sorti di una
scena tutto sommato mal riuscita; ma, soprattutto, regala uno dei momenti
intertestualmente più belli del dramma: in modo convincente raffigurati come
macchiette farsesche, i due contadini contrappongono il disastroso presente
della guerra del Peloponneso (“guerra mondiale”) alla trascorsa gloria della
battaglia di Maratona (“in cui eravamo noi a inseguire”). Con questo
riferimento Battistini mostra di cogliere un elemento fondamentale del pensiero
di Aristofane, uso contrapporre la severa Atene vincitrice dei persiani a
quella dei suoi contemporanei, accusati con pochi giri di parole di essere
“quasi tutti dei rottinculo” (Nuvole,
vv. 1098-1099); tanto che, negli Acarnesi
il coro era composto da reduci di Maratona, mentre, nelle Rane, il ritorno teatrale alla pietas del maratonomaco Eschilo era
proposto quale unica via per la rigenerazione morale della polis.
La delusione delle speranze delle donne permette all’autore l’innesto
del tema della Lisistrata: lo
sciopero sessuale come mezzo per esasperare gli uomini e spingerli a votare la
pace. La scena delle delibere e del relativo giuramento è condotta con
l’alternanza fra battute inedite e riprese aristofanee che già aveva fatto la
fortuna del prologo; qui, con esito più felice e una maggiore aderenza
all’originale, tanto che citata alla lettera è sovente la traduzione di Guido Paduano
(pubblicata da BUR nel 1981 e più volte ristampata). L’assalto all’Acropoli
occupata dalle donne è avviato da Diceopoli e Trigeo, poi raggiunti dal
militare Cinesia e da Lamaco che li dirigono (o, quanto meno, tentano di
dirigerli); ed è profluvio di comicità anche fisica, in cui il testo segue
l’originale, solo compiacendosi in dettagli sessuali su cui insisteva anche
Aristofane, ma con ben altri risultati. Si giunge infine al confronto verbale
fra i due opposti: Lamaco e Lisistrata. Il primo, smessi i panni del politico
italiano, diventa un generale autorevole, che guarda tutto sommato con realismo
alle dinamiche belliche. La caratterizzazione è perfettamente congruente con
quanto Aristofane pensava del personaggio storico (lo derise in vitam negli Acarnesi del 426 a.C. come guerrafondaio che ostacola i
narcisistici sogni di pace del protagonista, per poi esaltarlo post mortem come eroe nelle Rane del 405), ma la trasformazione di
Lamaco da mignottaro in condottiero coraggioso e realista, per quanto
bellicoso, suscita qualche imbarazzo tanto nello spettatore quanto nella
coerenza della trama. A segnare il primo affondo drammatico è però soprattutto
il personaggio di Lisistrata: l’inscalfibile e imperscrutabile, omerica
protagonista di Aristofane diviene fulcro di molteplici risvolti patetici,
moglie al settimo mese di gravidanza il cui marito, da lungo tempo in guerra,
nemmeno sa di essere prossimo alla paternità; in ossequio, mentre si evocano
scenari un po’ hippie di resistenza
passiva con donne stese davanti alle truppe per impedirne l’avanzata, il dramma
cambia repentino, diventando, da comico che era: serio, secondo le evidenti
intenzioni dell’autore; ridicolo, secondo l’evidente risultato.
Se la conclusione del primo atto lascia perplessi, l’inizio del
secondo riprende il prologo delle Tesmoforiazuse,
con le protagoniste intente a cospirare contro il tragediografo Euripide, reo
di misoginia. Mentre le donne si accartocciano in discorsi tra il banale e il
delirante e lo spettatore si interroga sulla possibile congruenza di ciò con
tutto quanto precede (domanda, ahinoi, destinata a rimanere senza risposta),
Diceopoli e Trigeo irrompono sulla scena a mo’ dell’aristofaneo Euripide e del
suo parente: l’incursione, pur non esilarante come l’originale, semplifica il
modello in maniera accessibile a un pubblico non specialistico, salvo poi
chiudersi in un nulla di fatto che riporta al canovaccio della Lisistrata. Viene qui da pensare che,
per riunire in un’unica opera tutte le tragedie al femminile di Aristofane,
l’autore si sia quantomeno fatto prendere la mano: oltre a non costituire
l’unica incongruenza logica della trama, l’intermezzo più che divertire finisce
per indispettire lo spettatore a causa del patente carattere surrettizio.
Da qui in poi, l’ipotesto è seguito più da presso, con l’eccezione di
una nuova inserzione consistente nel dialogo fra Trigeo e la moglie, seguace di
Lisistrata: il confronto potrebbe sembrare una ripresa dell’episodio aristofaneo
di Mirrine e del marito; in realtà approfondisce l’atmosfera tragica della fine
del primo atto, seppur con toni assai più efficaci. Dall’enunciazione
politico-utopistica si passa al lirismo esistenziale di una coppia di coniugi
ormai in età avanzata, che ricorda le lunghe veglie, lei in casa, lui
all’addiaccio sui campi di battaglia, causate dai passati eventi bellici: la
penna di Battistini e la recitazione degli attori offrono grande prova di
intensità in cui per nulla stonano saltuarie riprese della salacia originale.
Questa scena, unitamente alla precedente, aristofanea Lisistrata alle prese con
le compagne in fregola che cercano di fuggire dall’Acropoli, costituisce la
parte migliore dell’opera: come nel prologo, tragedia e commedia, anzi che
essere soltanto giustapposte in scene contigue, risultano intimamente
intrecciate. Certo, permangono incongruenze: le donne sfinite dall’astinenza
che tentano di disertare sono le stesse che prima lamentavano la lontananza dei
mariti in guerra, sicché non si capisce come il loro sciopero sessuale possa
sortire effetto; ma le scene funzionano e coinvolgono, quindi l’illogicità è
ampiamente perdonabile.
La scena di Mirrine e del marito riceve una nuova rivisitazione, verso
il finale, ibridata col confronto fra spartani e ateniesi che chiudeva
l’originale: rappresentando le voglie del militare ateniese Cinesia e dello
spartano Lacone alle prese con le mogli, l’autore rifunzionalizza i falli
posticci propri della tenuta degli attori della commedia arcaica, qui utilizzati
per significare l’ormai insostenibile eccitazione dei personaggi maschili. Ciò
origina una serie di trovate senza dubbio grevi, ma in tono con l’ipotesto.
L’epilogo presenta la riconciliazione fra spartani e ateniesi: se l’originale,
in ossequio ai canoni della commedia arcaica, concludeva il tutto con un
allegro banchetto e la prospettiva di ripresa delle gioie coniugali, qui
l’esultanza è stemperata dalla consapevolezza dei processi storici; viene da
dire: del futuro. E la conclusione speranzosa-amara sarebbe anche perfetta, se
non fosse annacquata in fastidiosi luoghi comuni pantografati dal finale del
primo atto.
Il finale sintetizza quello che costituisce forse il difetto maggiore
dell’elaborazione drammaturgica di
Battistini: la riflessione, anzi che risaltare dalla composizione dell’azione,
si esplicita in modi verbosi che nulla aggiungono alle banalità fiorite un po’
ovunque negli ultimi decenni; la morale, insomma, diventa moralismo. Tuttavia,
se da un punto di visto teoretico questa Lisistrata
offre ben poco di originale, sul versante scenico gli aspetti da lodare non
mancano: a partire da una scrittura capace di fare proprio l’animus aristofaneo (vien però da
chiedersi quanto il pubblico sia all’altezza: pronto a sganasciarsi
ogniqualvolta i personaggi dicano “cazzo”, ma incapace di cogliere le battute
più fini, come la sottilissima e geniale “allora è vero che in questo stato
siamo tutti spiati” passata nell’indifferenza generale), fino alle scenografie,
la cui sobria essenzialità è assai lontana da ogni minimalismo manierista; lode
anche agli attori, tutti in grado di adattarsi a un copione che, soprattutto
nelle scene migliori, alterna di continuo farsa e dramma. La riuscita
dell’allestimento non può però non risentire delle incongruenze e degli
scompensi della scrittura.
Ad ogni modo, per citare un’accademica sopra ricordata: “Al giorno
d’oggi, già il semplice mettere in scena Aristofane è un atto coraggioso”;
quindi, pur presentando difetti evidenti, la Lisistrata di Andrea Battistini d’après
Aristophane non è da bocciare in toto. Molto onesto mestiere vi è stato
profuso; qualche pretesa autoriale in meno avrebbe giovato alla riuscita
drammatica e, soprattutto, artistica.
Matteo Verzeletti