sabato 28 giugno 2014

LA LISTA (II)




C’è poco da dire: il coraggio fa fare passi da gigante. A tutti!
Parlavano - anzi, meglio, parlava - di libri: dei sontuosi, inarrivabili, maledetti, roboanti libri. Di ogni genere. Partì con i racconti e finì con la poesia attraversando una cordigliera intera di generazioni e secoli e generi: e non fu mai dotta. Si limitava a offrire il succo polposo di personali sensazioni e palpitazioni, ricreando il mondo in cui viveva quando leggeva: un mondo inaccessibile, e a macchie di colore. Lui aveva notato che i suoi occhi spesso parevano guardare altrove, eppure pensò bene di evitare accenti troppo personalistici, inutili informazioni: lui, l’ascoltava. Spesso non capiva nulla di quanto lei dicesse, e si sforzava; era uno sforzo tremendo il suo, e evidenti chiazze di sudore gli aureolavano le ascelle, e per darsi un tono ordinava una birra dietro un’altra, e anche lei lo seguiva in questo, per non essere da meno. Gli venne il dubbio che tutto questo fosse molto o troppo teorico, nulla di afferrabile nello spazio infinito dei tanto decantati libri. A studiarla bene, in verità, lei era un po’ come il Giudice Tal dei Tali. Certo nessun paragone possibile in fatto di bellezza, però era un incensamento continuo dei libri, di questi famosi libri, di questi invocati evocati enfatizzati libri, ma alla fine nessun titolo o lista o nome, a lui che voleva una via, o un vicolo soltanto, con numero civico; insomma, un posto dove soffermarsi e guardare in giro o in alto gli abbaini poco illuminati. Gli sarebbero piaciute delle storie di persone possibili, che avrebbe potuto incontrare in ogni momento, ad esempio mentre spingeva orrendi carrelli dalle ruote storte nel supermercato a due passi da casa sua; che poi, caso mai, non le avrebbe incontrate quelle persone, ma il solo fatto che ciò fosse possibile gli avrebbe reso un senso della realtà, una realtà vera, vivibile. Invece, ogni cosa restava sospettosamente vaga. Affusolata, ondeggiante. Gli stavano proponendo, in fin dei conti, un bel cartoccio di zucchero filato, perchè per lui niente era più evanescente e inconsistente dello zucchero filato, a parte quel buon sapore di bruciato e dolciastro che non era per niente male. Ecco! aveva trovato la soluzione, gli stavano propinando - il Giudice come la ragazza - una cassa intera di zucchero filato, volevano che restasse bambino, un bambino estasiato che immagina e sogna una vita di balocchi salvo farsi venire le occhiaie, andando negli anni giovanili, a comprendere un’umanità di tutt’altra pasta. Lui era stato in carcere, soltanto due giorni, certo, eppure sufficienti a uscire dal mondo incantato dei sogni: era diventato più grande. Come si dice?, si disse: era adulto. Sì, era diventato adulto. Arrivò a pensare, intanto che l’altra spaziava nell’immenso mondo dei libri, che sarebbe stato bello rendere obbligatori alcuni giorni da carcerati invece del servizio militare, ognuno ne avrebbe tratto beneficio per il futuro. E perciò, venendo al dunque, non gli servivano leccornie e simili, neppure lo zucchero filato. Gli interessavano i libri carnosi e succosi pieni di uomini e donne eccitati che si incontravano discutevano si odiavano e si amavano, che facevano un gran sesso, tanto e sempre, e mentre lo facevano guardavano fuori dalla finestra un tramonto o la luna o una stella più ardente delle altre, o una finestra illuminata pensando ad altro, immaginando altre storie, altri letti, altri incontri. Li voleva così i libri, oppure ne avrebbe fatto francamente a meno. Voleva trovarci gente che s’incrociava per caso o per volontà, che s’infiammava alla prima occasione o restava estasiata di fronte a sciocchezze che parevano verità indistruttibili, ci avrebbe voluto tante tantissime cose nei libri, e tutte possibili e reali per potere sognare che capitassero anche a lui. E se in punto di morte si fosse accorto di una propria vita banale ogni oltre immaginazione, beh! pazienza! sarebbe morto con la speranza che quelle vite sarebbero potute capitargli nella prossima vita. Lui ci credeva.
All’improvviso lei tacque. Aveva finito. Ordinarono altre due birre lasciandosi andare sulle sedie a godersi i rumori di fondo; di fianco a loro c’era un signore di mezza età impegnato in un cruciverba, assorto completamente, in lontananza un miscuglio di razze ed età, al di là dei vetri un paio di persone li osservavano e dietro di loro la folla scorreva calma: non era ora di punta.
Cos’hai comprato? gli chiese lui a bruciapelo; in libreria? domandò lei; sì, sì, insisté lui, quel libro che ti ho rovinato, cos’è. La ragazza parve pensarci su: sono più di ottocento pagine, scritte fitte, me ne hanno parlato bene, però di più non so. Ottocento pagine? fece lui a occhi sbarrati. Come si fa a scrivere così tanto, e a leggerli soprattutto; beh! replicò lei, la vita è molto più lunga di ottocento pagine eppure non ci basta mai. Convinta di averlo spiazzato. Se sei fortunato è così, altrimenti ..., rispose lui, e fu la replica definitiva. La più saggia. Ma tu leggi?, chiese la ragazza con qualche dubbio al riguardo, ora; lui le spiegò candidamente che in effetti non leggeva e che era in attesa di una lista di libri da una persona molto su - e le dovette precisare che intendeva una persona altolocata, uno potente insomma, lasciando di stucco la ragazza che non avrebbe immaginato certe sue entrature a vederlo così com’era, con quei capelli folti e arruffati e ricci e neri, e addirittura senza avere mai letto un libro (perchè a questa conclusione era inappellabilmente giunta); però la lista non arrivava e lui non aveva mai iniziato a leggere. Fammi leggere il tuo, le disse con tono sfacciato, direi impertinente. La ragazza era più impertinente di lui: tieni, gli disse, prendilo, leggilo e riportamelo. E presa da uno scatto di nervi lasciò cadere sul tavolo il bel tomo da ottocento pagine e se ne andò in tutta fretta. Il ragazzo - che l’avrebbe volentieri presa a schiaffi - non fece nemmeno in tempo a chiederle dove l’avrebbe ritrovata per restituirle il libro; alzò le spalle indifferente e ordinò un’altra birra. L’ultima.
Quella sera fu un disastro.
Il giovane ardeva dalla voglia di leggere il libro. La copertina blu gli piaceva e anche la figura di donna stampata sopra stimolava sensi nascosti, per lui indecifrabili, e se lo rigirava tra le mani, e ne scorreva le tantissime pagine con il viso pronto a ricevere il loro fresco alito, quello decantato, raccontato, mitizzato. Si convinceva di più e ancora di più che aveva proprio voglia di leggere un libro: quel libro. Ce la farò?, si chiedeva un attimo dopo, vedendolo sul comodino alto un bel po’ e compatto. Fece dei calcoli e usciva fuori che se avesse letto 5 pagine al giorno l’avrebbe finito dopo 168 giorni (le pagine erano 843 per l’esattezza), cioè cinque mesi circa. Cinquemesi? gridò. Qualcuno bussò forte alla parete: silenzio! è ora di dormire, disse una voce attutita. Cinquemesi?, ripeté a voce sommessa. E se muoio prima?, si disse. Fece una smorfia con le labbra, in fondo era un’ipotesi assai remota, i giovani non muoiono tanto facilmente. Si convinse che non sarebbe morto e che ce l’avrebbe fatta a conoscere il finale di quella storia che dal titolo pareva proprio un giallo con un morto e un colpevole. Pensò al Palazzo di giustizia, e al Giudice, e una gran soddisfazione gli montò dentro e avvertì un caldo così piacevole che ci scappò una risata. Era di nuovo la bibita frizzante. Ricomposta la mente, e i sensi, decise che le pagine da leggere dovevano essere non meno di 10. In fondo non sono poi tante - si fece coraggio - se leggo una pagina al minuto mi ci vogliono dieci minuti e dieci minuti al giorno sono niente, uno starnuto appena. Gli occhi del ragazzo brillavano, aveva capito finalmente perché la gente leggeva così tanti libri: perché è un gioco da ragazzi. Leggendoli con dieci minuti al giorno puoi divorare intere librerie. Si lavò i denti, diede una rassettata ai capelli, e felice fino all’orlo si infilò nel letto. Tutti affermavano di leggere prima di dormire, quindi evidentemente era quella la situazione migliore, la più adatta, pensò.
Faticò a trovare la posizione perché la luce non arrivava a sufficienza sul libro, il materasso pendeva da un lato e le coperte gli davano fastidio, si mise di lato - prima il destro poi il sinistro - supino, prono (ma capì subito che quest’ultima posizione gli avrebbe procurato una cervicale da paura), e dopo vari rivoltamenti e aggrovigliamenti di lenzuola, con un inizio di nevrosi immediatamente soffocata, pervenne ad un buon compromesso. Era mezzo di lato e mezzo supino. Riprese a respirare tranquillo.
Lesse la prima pagina di corsa perché aveva già perso del tempo prezioso - sebbene, si disse confortante, i dieci minuti dovevano calcolarsi di sicuro dal momento in cui iniziava a leggere, non certo prima - e di corsa anche la seconda, e controllando l’orologio capì che era in orario, forse una manciata di secondi in anticipo; sarà bene accelerare, disse, e forzò la lettura della terza e della quarta pagina. Alla quinta avvertì una prima confusione sui nomi, e dei luoghi anche. Il tutto si svolgeva in un Paese a lui ignoto, e i nomi delle vie e delle piazze lo incagliavano, e soprattutto lo confondevano e lui li saltava, apparendogli inutili: ma la confusione restava. Si parlava anche di poesia e di giovani poeti: e che ne poteva mai sapere. Meglio così, pensò, imparo due cose insieme. Era in anticipo sul cronometro e tornò indietro (farò presto, pensò). Invece si incartò sulla terza pagina perchè rileggendola gli sembrava necessario ritornare alla seconda e, da lì, alla prima, ed erano trascorsi cinque minuti, gliene restavano altri cinque ed era tornato al punto di partenza. Imbizzarrito, lesse come un forsennato tutte le pagine fino alla decima, e si fermò. Non aveva capito niente. Chi e cosa si faceva in quello strambo Paese sconosciuto si accavallavano, e più cercava dei personali punti di riferimento più ogni cosa lo lasciava indifferente, perché in fondo a lui che gliene fregava delle vite altrui. Forse non gli importava nulla dei libri se non erano altro che racconti delle vite di certi sconosciuti. Un accesso d’ira lo conquistò tanto da gettare via il libro che cadde con un tonfo; poi il ragazzo scoppiò a piangere. Piangeva davvero, nascondendosi sotto il cuscino, nascondendosi alla sua vista, e piangeva balbettando la sua ignoranza, e la stupidità pure, e di fronte a sé vedeva una muraglia prima d’acqua e poi di cemento e poi di fuoco, una muraglia impossibile da superare, mentre lui sarebbe rimasto lì, nell’angolo, a invecchiare. E, per di più, senza aver letto un solo libro, uno qualunque. E quando smise di piangere si addormentò profondamente.
Il giorno dopo, puntuale, era davanti al Giudice Tal dei Tali.
Il Giudice in questione godeva di una accentuata, seppur nascosta, sensibilità, che lo avvertiva degli umori intorno a lui. Che c’è?, chiese al ragazzo, qualcosa non va? Nulla, va tutto bene, rispose; non ti credo, gli fece il Giudice, sembri sul punto di scattare come una molla, qualcosa è successo. Attese. La lista?, cambiò discorso il ragazzo; non c’è, disse irritato il Giudice guardando certe carte che aveva sul tavolo, torna domani. E se non tornassi?; beh, sarebbe peggio per te, lo sai. Il giovane si mosse nervoso, era la prima volta che manifestava sentimenti ostili, sembrava giunto al picco della pazienza, e non c’era da dargli torto dopo tanto tempo per avere una semplice lista di libri. Una semplice lista di appena qualche libro leggibile. In fondo lui non aveva chiesto niente, era stato l’altro a solleticarlo. Nel frattempo, gli disse il ragazzo, non potrebbe dirmi come si fa a leggere un libro? Il Giudice Tal dei Tali si insospettì. Perché hai comprato un libro? gli chiese. Ma no che dice! fece secco lui, senza la sua lista che libri vuole che io compri, lo chiedevo così, per anticipare i tempi e quando avrò la lista potrò iniziare subito. Il Giudice finse di crederci. Per leggere bene un libro, gli disse severo, non devi far altro che pensare alla tua vita. E tacque come suo solito. Alla mia vita? disse il ragazzo alzandosi, vistosamente adirato, mi prende in giro? ma non parlano i libri della vita di altre persone? Il Giudice conservò la calma e l’equilibrio propri facendogli intendere con uno sguardo più comprensibile delle parole che aveva espresso la sua opinione e null’altro v’era da dire al riguardo. Ora vattene, gli intimò. Il ragazzo se ne andò furioso. Sulle scale incrociò i suoi abituali estimatori ai quali non diede un minimo di confidenza e uscendo sentiva che bisbigliavano: c’era da immaginarselo, ne avrà fatta una delle sue quel vecchio gufo. Eppure lui non ce l’aveva con il Giudice. Avrebbe dovuto avercela, perché era stato più provocatorio del solito, più arrogante, e di nuovo aveva rinviato la lista lasciandolo sulla corda in un’attesa infinita e straziante, come un feto che non nasce mai. Eppure sapeva che a voler menar le mani si sarebbe dato volentieri un bel pugno in un occhio. Fuori il tempo era incerto, nuvole veloci andavano e venivano e non riuscivi a goderti un po’ di sole o un cielo scuro per più di un minuto, che quello cambiava. I suoi sentimenti cambiavano, con la stessa velocità. Si appoggiò ad un lampione a guardare uno per uno chi gli passava davanti. Gli occhi, il taglio dei capelli, la forma della mascella, l’andatura, e provò a immaginare le loro vite, le case, gli arredi, le famiglie, arrivando alle parentele fino al terzo grado. Ogni tanto le paragonava alla sua, e, quindi, alla sua famiglia, e se possibile verificava le analogie per lui di maggiore interesse. Pensò al carcere, che in fondo è un’esperienza non proprio frequente in certi ambienti. Si immaginò una cosa simile per il figlio presunto di una signora davanti ai suoi occhi, vestita con una bella gonna ed una borsa capiente. La vede disperata davanti ad uno specchio dopo la chiamata dei poliziotti che il figlio era in stato d’arresto; anzi la immagina seduta sul water, pensosa, e poi la vede uscire di corsa, andare dalla vicina per chiederle un favore, sa! avevo promesso a mio marito la parmigiana e mi dispiacerebbe se ..., e la vicina la rassicura. Ora la signora a passo veloce entra in un portone elegante con i numeri al posto dei nomi, si è fatta riconoscere accolta da un gridolino di piacere. L’attende sul primo pianerottolo una signora molto anziana dai capelli argentati ed un bastone bello grosso. Saluti, convenevoli, occhiate prolungate per scrutare ciò che non viene detto, per assaporare sicuramente dei ricordi troppo lunghi da sbriciolare lì in quel momento sul pianerottolo, in così troppo poco tempo. C’è qualcosa che agita, s’intuisce. Le due donne sono dentro, è percepibile una conoscenza di molti anni, forse l’anziana era stata una insegnante o chissà, l’importante è che resta un affetto sicuro, e a lei, a quella più giovane, ora interessa il nome di un avvocato bravo, non troppo caro, però, hanno di quegli onorari, mio figlio ha avuto un problema, l’hanno arrestato, non credo sia una cosa grave, lo conosco. La donna evita le lacrime, resta composta, ma addolorata sì, si vede e la donna anziana non si perde in inutili domande, chiama subito, ha conoscenze ottime, e discrete, può andare lì anche adesso, ha giusto un’ora libera. Che fortuna! qualcosa gira per il verso giusto. La madre in ambascia ha una gratitudine seria, visibile, assicura visite meno frettolose e sgattaiola con qualche imbarazzo di riserva, e va dall’avvocato, gentile, rassicurante. Sa, oggi si arresta per niente, vedrà che è stato un equivoco presto sarà libero. La signora torna a casa, raccoglie la spesa dalla vicina, prepara la parmigiana, ragguaglia il marito, lo calma, espande discorsi ragionevoli, stempera reazioni impulsive. Poi, lo accarezza sulla testa mentre lui finisce la parmigiana, sazio, e si distrae con la televisione, e lei va a struccarsi. Dice. Finalmente può sedersi di nuovo sul water a piangere, disinvolta, libera. Soddisfatta. Il giorno dopo l’avvocato va al parlatorio, le cose si schiariscono verso il meglio, si aggiustano, dovrà stare un altro giorno ancora e quasi sicuramente sarà libero. Il ragazzo è raggiante torna in cella e trova uno nuovo, della sua età, che ha voglia di parlare, di comunicare la sua esperienza, si ritrovano, l’altro non immaginava una tale accoglienza e gli racconta subito cosa è successo, una lite con un carabiniere, i soliti stronzi. Provocano apposta, dice il nuovo. L’altro conferma. Si guardano per conoscersi, ripromettono di rivedersi fuori, sopraggiunge una nebbia prima a banchi poi sempre più fitta, e infine le immagini si interrompono improvvisamente e così l’invenzione, e il giovane torna a essere in mezzo alla strada appoggiato al lampione: ma quello sono io? pensa il ragazzo; come ci sono finito nella storia del figlio della signora. La confusione regna sovrana quando le vicende si intrecciano e si incontrano secondo ordini naturali che a noi sembrano tanto complicati, anzi assurdi, biechi, sadici. Finzione, realtà, vita inventata e vita reale, un guazzabuglio infinito. Il giovane iniziò a capirci qualcosa, o perlomeno così gli parve, azzardò delle ipotesi mentali e occorre dire che dei lumicini si accesero. Questo fatto di ritrovarsi in carne e ossa e con la sua notte di nero carcere dentro una storia inventata (ma era poi realmente inventata?) aveva smosso la sabbia, e rimestato lì dentro dove qualcosa si trova sempre. Non attese oltre, e corse a casa.

 

Michele Mocciola

 

(fine seconda parte - continua)

martedì 17 giugno 2014

LA LISTA


 

Il Giudice Tal dei Tali un giorno che era di turno per gli arrestati, ebbe a che fare con un giovane condotto coi ferri ai polsi, al suo cospetto accusato di essere venuto a mani con un carabiniere - giovane anch’esso - che gli aveva, incautamente, richiesto i documenti, ignorandone l’intemperanza. Ne era scaturita una breve ma intensa colluttazione, di cui v’era traccia negli allegati - e reciproci - certificati medici che attestavano: a) per il militare: rossastre escoriazioni alle mani e tumefazioni in viso; b) per il giovane virgulto: graffi periorbitali e qualche capello in meno (poca roba). Durante l’interrogatorio il Giudice, quel giorno (e non so il perché) si lasciò andare a filosofiche riflessioni. Era giudice di carriera e di provata esperienza, e serio per di più, eppure dopo oltre vent’anni gli prudeva un certo gusto di dire la sua, abbandonate le remore di circostanza. Lui si sentiva, ora, autorizzato, ad affacciarsi al proprio balcone fiorito in primavera per dialogare con un pubblico che stimava attento alle sue parole di saggezza.
Mi rendo conto, disse il Giudice al giovane in catene, che non è semplice affrontare questa umanità; in realtà non lo era nell’Ottocento, e potrei citare fior fiori di scrittori che nero su bianco hanno attestato ciò in pagine di memorabile bellezza. Figuriamoci quanto possa esserlo ora che le cose (lo sottolineò) si sono complicate all’inverosimile; e dico cose per dire relazioni, rapporti, frequentazioni. Detto ciò, concluse, la difficoltà del vivere non è un buon motivo per alzare le mani, tanto meno su un carabiniere. La smetta, gli disse perentorio e forse anche spazientito, di ricorrere a tradizionali quanto noiosi (sbadigliò) metodi sbrigativi per risolvere questioni individuali; la smetta (lo ripeté) di scegliere la via di fuga più breve - e più comoda - dalle sue ambasce avvinazzandosi la sera con quel che ne segue - lei mi capisce. Sarebbe il caso (e si fece suadente) che lei (anche questo sottolineò) si impegnasse di più ad affrontare il mondo cercando altrove una ragione della sua esistenza, e che sia un altrove lecito, ovviamente. Crede forse che io non sappia la fatica che si fa a scendere ogni giorno nelle piazze e nelle vie, a confrontarsi con questo e con quello, a rinunciare a un poco della propria arroganza e presunzione e orgoglio, a dominare la paura e poi a riconoscerla e accettarla, a fidarsi, a guardare negli occhi e, insomma, a vivere? Lo so bene e lo sperimento, e mi verrebbe facile anche a me, talvolta, di allungare una mano o un calcio, eppure non lo faccio: troppo semplice, troppo istintivo. Invece, caromio, sa cosa faccio? Il ragazzo lo guardava fisso e stupito, con gli occhi un po’ gonfi per i graffi e il sonno non goduto nella cella. Lo sa che faccio? ripeteva il Giudice eccitato. No, non lo so, rispose con candore. Lo sapevo, replicò soddisfatto il Giudice, lo sapevo che non lo sapeva, allora glielo dico io: sfoglio delle pagine (e umettandosi l’indice ne mimava il gesto) e ... leggo; sì leggo. Leggo pagine e pagine di storie fantastiche, di amori e di morti, di persone, leggo libri di autori indimenticabili e così mi riappacifico. Leggere, leggere, leggere, questo è l’antidoto al veleno che ci danno, ogni giorno, ragazzo mio. Il ragazzo deglutì e tacque. Tutti tacquero. La seduta si sciolse secondo le regole e la prassi.
Il giorno del giudizio il ragazzo se la cavò con una piccola condanna con tanto di benefici e respirò di nuovo l’aria della libertà, che quella più di tutto gli era mancata.
Passò qualche tempo, le cose andavano come al solito, quando un giorno una segretaria annunciò al Giudice Tal dei Tali - indaffarato tra le carte del suo studio - che c’era una persona che lo cercava insistentemente; il Giudice chiese chi mai fosse costui, e la cortese donna poté soltanto dire: è un giovane. Sentiamo che vuole, sentenziò il Giudice. Apparve sulla porta il ragazzo a suo tempo in catene, era sbarbato e coi capelli tirati a lucido, un’espressione pensosa. E tu che ci fai qui? chiese il Giudice, hai nostalgia del carcere?; il ragazzo sorrise, capì che era bene accolto, ed entrò.
Il ragazzo andò dritto a sedersi, era determinato nell’atteggiamento, e si mise ad attendere come se fosse stato convocato, mentre era stato lui a prendere l’iniziativa. Il Giudice era seduto di fronte e si interrogava sulle sue intenzioni, apprezzandone la sicumera. (Non è vero che si conquista con l’età e l’esperienza, questo giovane ce l’ha già, pensò). Ti trovo bene, gli disse, rimarcando il tono confidenziale; e tacque. Anche il ragazzo taceva, aspettando. Embè, gli fece il Giudice; embè cosa, rispose il giovane; Cristosanto, uscì detto al Giudice facile all’irritazione, cosa vuoi da me, cosa sei venuto a fare; come cosa voglio, la lista no?, fece candido il giovane; benedettiddio, la lista? sbarrò gli occhi il Giudice; sì la lista la lista, di rimando l’altro; ma di che lista parli, io non ne so niente. Il ragazzo si aggiustò sulla poltrona comoda. Aveva occhi lucenti di un’attesa maturata da tempo. Sono qui, disse, per la lista dei libri, quelli che quando li leggi non ti viene di alzare le mani o di tirare dei calci, e ti fanno amare l’umanità, o se proprio non te la fanno amare, te la fanno accettare così com’è, e tu poi vivi meglio; e, soprattutto, non ti ubriachi e non metti le mani addosso ai carabinieri che ti chiedono i documenti. Il povero Giudice sbiancò. Sbiancò di netto su tutto il viso, e le mani gli tremavano, e pensò per un attimo che quel giovane gliela stava per fare, mettendolo sotto alle sue stesse parole. Sapeva controllarsi quel Giudice, d’età e d’esperienza, e si controllò: ah già! la lista, è vero, ti confesso che me n’ero dimenticato, hai fatto bene a venire fin qui a ricordarmelo, hai fatto proprio bene. Tacque ed ogni cosa rimase in sospensione, compreso il ragazzo, che probabilmente non aveva poi tanta fretta. Dopo poco il Giudice disse: va bene, l’avrai, torna domani, alle 11 in punto. Il giovane ringraziò in mille modi, gli sorrise e se ne andò.
Quella sera il Giudice non chiuse occhio.
Non era tanto il fatto di preparare la lista, che pure richiedeva un quale impegno, quanto di essere stato per una volta preso in parola, alla lettera. Lui aveva parlato dallo scranno di giustizia, età e severità, e l’altro, un giovane ubriacone, senza studi e censo e origini, gli aveva dato credito, e veramente intendeva affidarsi ai libri di cui lui vantava le lodi per fare della difficoltà della vita un momento di felicità piuttosto che un alibi alle proprie scelleratezze. Una responsabilità di tal fatta, giurava il Giudice, non l’aveva mai sentita. Ma non si tirò indietro.
Il giorno successivo il ragazzo si ripresentò al Palazzo di Giustizia con un viso sorridente lì dove i volti erano corrucciati, gli sguardi di sbieco, e la prosopopea suonava fanfare roboanti. La solita segretaria cortese l’accompagnò allo studio del Giudice Tal dei Tali. Il giovane vide, anziché il Giudice che lui conosceva, un uomo con la barba incolta e gli occhi pesti e gli avrebbe voluto chiedere cosa gli fosse mai successo, ma si trattenne: non era il caso di concedersi certe confidenze. Sedette al suo posto e tacque.
Il Giudice era a capo chino che scarabocchiava un foglio, lo guardò appena, con sinecura, e gli disse: la lista oggi non c’è, torna domani. Il ragazzo non batté ciglio, salutò, si alzò ed uscì.
I giorni si susseguono in fretta, arrivò domani, dopo domani e quello dopo ancora, e la scena si ripeteva uguale, senza il minimo cambiamento. A Palazzo di Giustizia conoscevano tutti, ormai, quel bel ragazzo che ogni giorno alle 11 in punto si presentava nella stanza del Giudice per uscirne dopo pochi secondi. Lo accoglievano chi con una pacca sulla spalla, chi con un sorriso, chi inviandogli un bacio; qualcuno tra i più socievoli gli gridava salendo le scale, come va oggi? novità?, e lui serafico: tutto come sempre, nulla è cambiato. Ed era vero, perché non era riuscito ad ottenere non una lista ma neppure un solo titolo di uno di quei libri favolosi, di cui aveva gustato il solo odore quand’era lui in catene. Gli piaceva che venisse riconosciuto e salutato, e godeva di quella sorta di frequentazione con il Giudice Tal dei Tali cui era stato ammesso, nonostante il resto. Talvolta si chiedeva l’utilità delle visite quotidiane, improduttive su ogni fronte, e s’affacciava il senso di un’attesa illusoria, e di una lista finora inesistente, ma andava avanti con una decisione che non gli era nota.
Capitò che un giorno, dopo l’ennesimo rinvio, uscendo dal Palazzo e contento di alcuni apprezzamenti fisici che gli erano stati rivolti in un contesto sempre più amichevole, si accorse per la prima volta che a pochi passi da lì c’era una grande libreria. Entro, si disse, almeno inizio a prendere confidenza e quando avrò la lista sarò pronto e saprò dove cercarli. Girò per gli scaffali con occhi di sorpresa per la quantità di libri accatastati e tutti diversi. Erano tanti, troppi per lui inesperto, e dopo un po’ che stava lì iniziò a girargli la testa. Ebbe sussulti di nausea, le scritte si accavallavano e sovrapponevano, gli scaffali gli parevano troppo pieni e lì lì per crollare e lui sarebbe morto sepolto da una quantità indescrivibile di libri sconosciuti, e nessuno l’avrebbe più ritrovato e non ci sarebbe stato né funerale né sepoltura e... scappò via terrorizzato, e una volta a casa s’infilò nel letto con il cuscino sopra la testa e giurò a sé che mai avrebbe più messo piede in una libreria.
Ma, va da sé, che le cose non andarono così.
Una mattina di qualche tempo dopo, arrivando trafelato al Palazzo di Giustizia, che s’era fatto tardi e sapeva che il Giudice Tal dei Tali non sopportava i ritardatari, passando di corsa davanti alla libreria avvertì come un lampo tutto giallo negli occhi che coprì temendo di restare accecato. Cos’è stato, pensò, ma non aveva tempo di fermarsi e proseguì, e quando si ritrovò seduto davanti al Giudice in ritardo di ben cinque minuti, s’accorse di non avere fiato neppure per scusarsi. Il Giudice come sempre era occupato nelle sue cose e neppure alzò lo sguardo verso di lui gustandosi il rumore dell’affanno. Oggi sei in ritardo, come mai? gli chiese, forse non ti interessa più la lista? ritieni come tutti voialtri giovani che il tempo che non viene immediatamente riempito di cose tangibili è tempo perso? Il giovane si sentì offeso da quel giudizio perentorio e ingiusto. Erano mesi che ogni giorno, alle undici, assecondava le promesse di quel vecchio rinunciando ad ogni altro impegno, e per di più veniva accomunato ai suoi coetanei, felici di una sconfinata spensieratezza. Ingoiò il rospo. Ma no che dice, può capitare una volta di essere in ritardo, sono umano; il Giudice lo rimbrottò: lo sarai ancora di più dopo avere avuto la mia lista, ci sto lavorando; non farti strane idee, non pensare che dopo aver letto tutti quei libri affascinanti potrai permetterti di arrivare sempre di più in ritardo, anzi dovrai essere più puntuale, più preciso, più attento, e più capirai il mondo più ti sembrerà assurdo e più dovrai adeguarti a lui. Ti sei messo in un brutto guaio, giovanotto. Il ragazzo arrossì, lo avrebbe volentieri strangolato, ma pensò che gli sarebbero toccati almeno trent’anni di carcere, a dire bene, e rinunciò all’idea. Però gli chiese un suggerimento. Il Giudice alzò finalmente lo sguardo: va bene ma fai presto non vedi come sono occupato. Il giovane gli raccontò in due parole del lampo accecante di poco prima, dello spavento che ne aveva avuto, e se lui aveva idea di cosa potesse essere. Il Giudice tra mille sbruffi d’impazienza gli rispose: c’è solo un modo per sapere cos’era: entrarci dentro; torna lì e può darsi che tutto ti sarà più chiaro, e ora vattene. Il ragazzo come un fulmine uscì dallo studio e precipitandosi giù per le scale di corsa tornò alla libreria.
Il lampo giallo era ancora lì, e lo aspettava battendo il piede d’impazienza. Il ragazzo non poteva crederci che aspettasse proprio lui, che se n’era rimasto imperterrito all’ingresso della libreria, rifrangendosi su una vetrina tirata a lucido, sguazzandoci nel trogolo ritrovato: aveva atteso lui. Incredibile! ne ricordava pochissime di occasioni analoghe, sicuramente quando sua madre era in attesa di lui. Ma lo aveva aspettato veramente? gli sovvenne un dubbio e lo azzerò, in un batter d’occhio. Per paura evitò l’almanacco delle altre occasioni per dirigersi verso quel lampo che, rivedendolo, ora scalpitava in un giallo furioso, tendente al bruno. Pensò al Giudice e gli rimbombava: entrarci dentro. Due sole parole eppure affilate, odiose; erano sufficienti due passi, due passi ancora per due parole, ma la fatica gravava, schiacciandolo, e la paura lo tratteneva ad un palo o albero, chissà!, in ogni caso lo tratteneva. Paura e coraggio, che odioso binomio acquisito dalla nascita: non c’era una via di mezzo? era quella che cercava. La trovò nel modo più semplice e diretto, nessun arzigogolo: si mosse di un solo passo. Un passo ed una parola. Fu sufficiente; a volte basta mettere sul piatto un’intenzione seria. Il lampo se ne accorse e anche lui fece a sua volta un passo e lo prese sotto una calda luce protettiva, lo avviluppò, abbracciò, strinse, ma non pensate che gli facesse male, perché lui rideva, sentendo voglie e formicolii strani, come d’una bibita frizzante giù per la gola; gorgogliava, anche. Tutto finì all’improvviso, nel lampo di un baleno, lasciandogli un vorticoso giramento di testa, sorta di sbandamento incontrollabile, e oscillò, paurosamente, sotto l’effetto tellurico di una forza incontenibile e oscillando cadde su qualcosa o, peggio, qualcuno, che in quel mentre usciva dalla libreria, pieno di sé.
Si fa presto a dire qualcuno! Era una ragazza, e anche bella, con discrezione; insomma, dovevi soffermarti per carpirne i segreti di bellezza, certo è che non le avresti fischiato dietro al solo passaggio. Lei sbandò insieme ai capelli, da qualche parte si avvertirono ciondolii metallici (orecchini o bracciali, non so), ed un grosso libro le cadde di mano, aprendosi sull’asfalto. No, no, si mise a piagnucolare lei vedendo lo scompaginamento affettivo sotto i suoi occhi; ma guarda, continuò, guarda cosa hai fatto testa di c... e di m..., concluse la ragazza con pudicizia, e vi aggiunse dei pugnetti bene assestati sull’avambraccio sinistro. Il giovane ex detenuto era frastornato: che scherzo era quello? Donne e libri in un sol colpo? era quello l’appuntamento che aveva rischiato di saltare? Pensò al lampo e lo maledì. Maledì anche il Giudice, ma in un punto più profondo del suo oceano inquieto, e non se ne accorse. Farfugliò delle scuse incomprensibili, tacendo ovviamente del lampo giallo e della bibita frizzante, accovacciandosi a raccogliere il libro che, così conciato com’era, pareva una bocca storta con una brutta dentatura, e un ghigno da malfattore. Come si fanno ad amarli, disse tra sé. E intanto, giacché c’era, guardava in su le gambe niente male (di lei) che sparivano poco sopra il ginocchio. Non osò di più. Lascialo stare, gridò lei impaurita, non ti azzardare a toccarlo o sarà peggio per te, e dicendolo mostrò un tacco appuntito di tutto rispetto.
La vanità supera sempre la propria bellezza! gli venne da dire - ma non lo fece - al giovane ex detenuto e per nulla poeta o lettore, e pensò ad un qualche attacco di nonosoche. Di pazzia bella e buona, aggiunse tra sé, altroché. Bloccato a mezz’aria con le ginocchia piegate, le mani ad arpione e lo sguardo invariabilmente verso il su del cielo, oltre le gambe ferme al ginocchio dove troneggiava il bel viso di lei, sconcertato e rabbioso dell’infausta acquirente, s’interrogava sul da farsi. Un facere incommodo, pensò ancora. Ma cosa gli capitava di pensare certe frasi senza senso in lingue sconosciute, eleganti e supponenti, oh sì tanto supponenti, rincarò, ma del significato di quest’ultima parola (supponenti) non ne sapeva nulla. Iniziava ad innervosirsi di quanto accadeva e la testa gli rumoreggiava manco fosse un flipper, e per sgranchirne gli ingranaggi scosse il capo riccioluto muovendo un ammasso intricato di capelli neri, con boccoli anarchici che gli calavano sulla fronte, e dietro la nuca. La ragazza colse l’attimo della fatale incertezza, e lo colse al volo impietosendosi, entusiasta dei soli suoi capelli tra i quali frugò le sue idee o pensieri. A lui parve più che altro una bella grattata di testa e non gli dispiacque, e reagì con un tremito, di quelli incontrollabili. Poi, deciso, si alzò. Erano di già innamorati, reciprocamente. Che vuol dire facere incommodo, esordì lui; è semplice, fece lei col sorriso di chi non se la crede: si dice quando sei impegnato in un’azione scomoda, poco agevole. Ah! sorvolò; e supponente? e anche qui lei non ebbe incagli: uno che se la crede, insomma che se la tira. Tu non mi sembri supponente, continuò la ragazza, peccato il libro, e lo raccolse trattandolo da ferito semi-grave. Il giovane restava imbambolato, le spiegazioni erano soddisfacenti ma non si spiegava il resto, e si grattò la testa perché il problema era sicuramente lì dentro. Se vuoi te ne compro uno nuovo, un libro nuovo voglio dire, le disse il giovane; la ragazza guardava il suo libro dispiaciuta e lo accarezzava: non fa niente, gli disse, non si è rovinato molto e poi era l’ultima copia; beh!, sbottò lui, vuol dire che te ne compro uno diverso. Lei si fece arcigna: non penserai che un libro vale l’altro? Lui che sinceramente non sapeva di cosa stesse parlando, a peso morto in un mare di ingenuità, se ne uscì con un: ah no?
Caro lettore stranito, se tu fossi passato da quelle parti dopo qualche ora, all’incrocio tra le due vie principali, dove risalta l’insegna del bar-caffetteria, e avessi sbirciato tra i vetri che danno sulla strada, li avresti visti uno di fronte all’altro, con un gran numero di bicchieri vuoti, e avresti notato che lei parlava parlava e parlava, e lui l’ascoltava, interessato e paziente. Tu non puoi sapere l’argomento della conversazione, puoi magari immaginarlo perché ti ho condotto per mano ad occuparti di certe vite altrui, puoi giungere a delle conclusioni logiche, ma se qualcuno passando di lì come te, e vedendoti incollato al vetro che li guardavi attento e ti avesse chiesto: scusa lettore, mi sai dire cos’hanno da dirsi così tanto quei due? tu avresti esordito dicendo: penso che ... . Altre certezze non le avresti sfoderate visto che dal vetro potevi vedere e non ascoltare. Ecco! Però se tu non ti fossi limitato a guardare la strana coppia, e preso da un’insolita morbosità, ti fossi spinto con lo sguardo oltre, verso il tavolino sulla destra, sotto il grande affresco per nulla disdicevole con tante donne e uomini stilizzati ad una tavola imbandita, ti saresti accorto di me che, fingendo di farmi un’intera Settimana enigmistica, li ascoltavo più morboso di te, senza perdermi una sola parola. E tutto questo perché, più avveduto, non mi sono accontentato di guardare dal vetro ma ho preso coraggio, sono entrato e mi sono seduto proprio al loro fianco. Ho avuto più coraggio e ora posso riferirti segno per segno ciò che si dicevano, all’insaputa di me.

 

Michele Mocciola

 

(fine prima parte - continua)



 

domenica 8 giugno 2014

THE WOLF OF WALL STREET


 


Lo Stato degli USA vs/ lo Stato degli USA. Inizia un memorabile processo mediatico: inizia il film di M. Scorsese.

L’America contro l’America va in scena sotto i paramenti voluttuosi del Fumetto tra ridicolaggini (ad esempio, la scena in cui l'impareggiabile L. DiCaprio balla al suo trascinante matrimonio - il secondo per la cronaca rosa), scempiaggini (un profluvio di commenti stupendamente sessisti conditi di volgarità mantriche, a dispetto di ogni sbadigliante politicamente corretto),   patetiche e clownesche inverosimiglianze (la scena in cui L. DC. raggiunge a fatica la paralisi cerebrale grazie a magiche pasticche vecchie di qualche decennio e ad effetto ritardato). L'auto di gran lusso accartocciata da cui esce indenne il conducente è l'apoteosi di questo Fumetto. E poi ci sono: il grassone, il cinese, tappetino; quindi i soprannomi e le fisiognomie. Ci sono le esagerazioni e le esasperazioni, le semplificazioni, e il lusso monetario di nostalgica memoria Paperoniana, ci sono le Jessiche Rabbit, i nani-proiettili, i colpi bassi a più strati (il finale insegna). Un Fumetto che brilla grazie a stelle di prima grandezza (Scorsese/DiCaprio) allorché si celebra un'altra insuperata leggenda americana: il Cinema. Cosa abbiamo da lamentarci!

Il Cinema e il Fumetto servono per raccontarci una storia (una delle tante) della grande e inesauribile prateria americana, questa volta non dell'oro grezzo, ma di quello molto più raffinato del Mercato di Wall Street. Anche questa nuova prateria è battuta a tappeto senza scrupoli per godersi la ricchezza più sfrenata e più ostentata che si possa immaginare, fatta di panfili ed elicotteri personali, sonori bigliettoni e aragoste, entrambi lanciati a manciate contro i meschini habitué della metropolitana (cioè, i detective del FBI), relegati ad un impiego pubblico senza prospettive analoghe. Una ricchezza smargiassa che non stupisce né sconvolge una compassata e raffinata signora inglese d'altri tempi, diversa ma complice divertita di quel figlio coloniale arguto e mangiasoldi, spaccone e temerariamente sensuale. Insomma, Il Cinema e il Fumetto di Scorsese/DiCaprio ci raccontano un altro Far West per incantare di nuovo noi piccoli europei, sempre più rovinosamente pigri.

E non basta, perché il film  ripete lo schema della migliore tradizione americana dove accanto ad ogni fuorilegge c'è uno sceriffo/detective che lo bracca, e ad ogni serio impedimento un ardimentoso scatto di voracità: di ingegno, di denaro, di forza, di patriottismo. Ce n'è di sano e lucifero patriottismo americano nel pelo arruffato del Lupo di  Wall Street, quello che chiama a raccolta, eccita ed esalta, aggrega. Contro tutti, ma soprattutto contro la Legge. Il grande cinema americano ci ha insegnato ad amare i truffatori e i più pericolosi assassini (Hannibal Lecter, per dirne uno), tanto quanto gli eroi invincibili. Tutto risiede nel carattere, nell’apprendimento instancabile, nell’indomita caparbietà dei desideri, delle passioni, degli obiettivi, e nelle scelte più congeniali di fronte ad una realtà che cambia imprevedibilmente (rinvio al finale del film); il supereroe osserva la realtà e ad essa si adatta correggendo la rotta delle proprie condotte. Di fronte a siffatte qualità anche la Giustizia perde, accontentandosi, dietro una faccia brutta ed arcigna, di un patteggiamento di pena irrisorio.

D’altronde, inutile evocare gli spettri della colpa e della condanna ultramondana a redimere l’irredimibile natura del supereroe americano, perché nel pieno di catastrofi naturali d’ispirazione divina (il naufragio del panfilo Naomi), la possibile salvazione (tutta e solo europea) si rivela mera pantomima italiana, sotto le note di Gloria di Umberto Tozzi (un omaggio di due oriundi?). Meglio lasciar perdere.

Ebbene, tutta questa composita America di miti e leggende, è di nuovo in guerra fratricida per vedere chi la spunta, tanto da osare un nuovo e sconcertante peana d’attacco: Fuck you USA, gridano in delirio i dipendenti beneficiati dal Lupo. In fondo,  un obiettivo accomunante non c'è più, e il nemico pubblico n. 1 sono più d'uno, e tutti dentro lo scintillante caleidoscopio americano. Superato il muro comunista e abbattuto il Gran Capo terrorista (dopo il Gran Capo pellerossa), non resta che arrembare gli uffici del Lupo di Wall Street al grido di Mrs. Robinson. Appunto, l’America contro l’America.

Una gloria di un vecchio cult-movie disgregante, un ex-inno alla rivoluzione dei modi comuni di pensare, diventa il sottofondo musicale per l'eroe di oggi del FBI che ci prova a prenderli tutti con le mani nel sacco questi suoi compatrioti, adepti pervertiti dal contro-eroe del denaro e della spregiudicatezza. Ma questa volta i pezzi dell’America si attaccano senza spezzarsi, e senza che circoli una sola goccia di sangue, nelle forme edulcorate, famigliari, divertenti, e soprattutto innocue, del Fumetto.

I demagoghi delle buone pratiche, dello sguardo caritatevole, del culto delle fobie, avranno di che inorridire dell'umanità dipinta sopra le volte della cappella dissacrata di Sua Maestà il Denaro, evocando un ricomponimento gestuale e labiale che apparirebbe altrettanto farsesco. Per non dire dei tanti che avranno modo di imprecare sul materialismo, il vil denaro e la corruzione che produce, e sul morbo del secolo: la cocaina.

Resta il fatto che da queste apparenti macerie il buon Lupo potrà, altrove, provarci ancora a chiedere con sguardo ammaliante: vendimi questa penna, risolvendo in una banalità linguistica e concettuale l'uovo di Colombo di un’America tuttora vitale.
 
Michele Mocciola