C’è poco da dire: il coraggio fa fare passi da
gigante. A tutti!
Parlavano - anzi, meglio, parlava - di libri: dei
sontuosi, inarrivabili, maledetti, roboanti libri. Di ogni genere. Partì con i
racconti e finì con la poesia attraversando una cordigliera intera di
generazioni e secoli e generi: e non fu mai dotta. Si limitava a offrire il
succo polposo di personali sensazioni e palpitazioni, ricreando il mondo in cui
viveva quando leggeva: un mondo inaccessibile, e a macchie di colore. Lui aveva
notato che i suoi occhi spesso parevano guardare altrove, eppure pensò bene di
evitare accenti troppo personalistici, inutili informazioni: lui, l’ascoltava.
Spesso non capiva nulla di quanto lei dicesse, e si sforzava; era uno sforzo
tremendo il suo, e evidenti chiazze di sudore gli aureolavano le ascelle, e per
darsi un tono ordinava una birra dietro un’altra, e anche lei lo seguiva in
questo, per non essere da meno. Gli venne il dubbio che tutto questo fosse
molto o troppo teorico, nulla di afferrabile nello spazio infinito dei tanto
decantati libri. A studiarla bene, in verità, lei era un po’ come il Giudice
Tal dei Tali. Certo nessun paragone possibile in fatto di bellezza, però era un
incensamento continuo dei libri, di questi famosi libri, di questi invocati
evocati enfatizzati libri, ma alla fine nessun titolo o lista o nome, a lui che
voleva una via, o un vicolo soltanto, con numero civico; insomma, un posto dove
soffermarsi e guardare in giro o in alto gli abbaini poco illuminati. Gli
sarebbero piaciute delle storie di persone possibili, che avrebbe potuto
incontrare in ogni momento, ad esempio mentre spingeva orrendi carrelli dalle
ruote storte nel supermercato a due passi da casa sua; che poi, caso mai, non
le avrebbe incontrate quelle persone, ma il solo fatto che ciò fosse possibile
gli avrebbe reso un senso della realtà, una realtà vera, vivibile. Invece, ogni
cosa restava sospettosamente vaga. Affusolata, ondeggiante. Gli stavano
proponendo, in fin dei conti, un bel cartoccio di zucchero filato, perchè per
lui niente era più evanescente e inconsistente dello zucchero filato, a parte
quel buon sapore di bruciato e dolciastro che non era per niente male. Ecco!
aveva trovato la soluzione, gli stavano propinando - il Giudice come la ragazza
- una cassa intera di zucchero filato, volevano che restasse bambino, un
bambino estasiato che immagina e sogna una vita di balocchi salvo farsi venire
le occhiaie, andando negli anni giovanili, a comprendere un’umanità di
tutt’altra pasta. Lui era stato in carcere, soltanto due giorni, certo, eppure
sufficienti a uscire dal mondo incantato dei sogni: era diventato più grande.
Come si dice?, si disse: era adulto. Sì, era diventato adulto. Arrivò a
pensare, intanto che l’altra spaziava nell’immenso mondo dei libri, che sarebbe
stato bello rendere obbligatori alcuni giorni da carcerati invece del servizio
militare, ognuno ne avrebbe tratto beneficio per il futuro. E perciò, venendo
al dunque, non gli servivano leccornie e simili, neppure lo zucchero filato.
Gli interessavano i libri carnosi e succosi pieni di uomini e donne eccitati
che si incontravano discutevano si odiavano e si amavano, che facevano un gran
sesso, tanto e sempre, e mentre lo facevano guardavano fuori dalla finestra un
tramonto o la luna o una stella più ardente delle altre, o una finestra
illuminata pensando ad altro, immaginando altre storie, altri letti, altri
incontri. Li voleva così i libri, oppure ne avrebbe fatto francamente a meno.
Voleva trovarci gente che s’incrociava per caso o per volontà, che s’infiammava
alla prima occasione o restava estasiata di fronte a sciocchezze che parevano
verità indistruttibili, ci avrebbe voluto tante tantissime cose nei libri, e
tutte possibili e reali per potere sognare che capitassero anche a lui. E se in
punto di morte si fosse accorto di una propria vita banale ogni oltre immaginazione,
beh! pazienza! sarebbe morto con la speranza che quelle vite sarebbero potute
capitargli nella prossima vita. Lui ci credeva.
All’improvviso lei tacque. Aveva finito. Ordinarono
altre due birre lasciandosi andare sulle sedie a godersi i rumori di fondo; di
fianco a loro c’era un signore di mezza età impegnato in un cruciverba, assorto
completamente, in lontananza un miscuglio di razze ed età, al di là dei vetri
un paio di persone li osservavano e dietro di loro la folla scorreva calma: non
era ora di punta.
Cos’hai comprato? gli chiese lui a bruciapelo; in
libreria? domandò lei; sì, sì, insisté lui, quel libro che ti ho rovinato,
cos’è. La ragazza parve pensarci su: sono più di ottocento pagine, scritte
fitte, me ne hanno parlato bene, però di più non so. Ottocento pagine? fece lui
a occhi sbarrati. Come si fa a scrivere così tanto, e a leggerli soprattutto;
beh! replicò lei, la vita è molto più lunga di ottocento pagine eppure non ci
basta mai. Convinta di averlo spiazzato. Se sei fortunato è così, altrimenti
..., rispose lui, e fu la replica definitiva. La più saggia. Ma tu leggi?,
chiese la ragazza con qualche dubbio al riguardo, ora; lui le spiegò
candidamente che in effetti non leggeva e che era in attesa di una lista di
libri da una persona molto su - e le dovette precisare che intendeva una
persona altolocata, uno potente insomma, lasciando di stucco la ragazza che non
avrebbe immaginato certe sue entrature a vederlo così com’era, con quei capelli
folti e arruffati e ricci e neri, e addirittura senza avere mai letto un libro
(perchè a questa conclusione era inappellabilmente giunta); però la lista non
arrivava e lui non aveva mai iniziato a leggere. Fammi leggere il tuo, le disse
con tono sfacciato, direi impertinente. La ragazza era più impertinente di lui:
tieni, gli disse, prendilo, leggilo e riportamelo. E presa da uno scatto di
nervi lasciò cadere sul tavolo il bel tomo da ottocento pagine e se ne andò in
tutta fretta. Il ragazzo - che l’avrebbe volentieri presa a schiaffi - non fece
nemmeno in tempo a chiederle dove l’avrebbe ritrovata per restituirle il libro;
alzò le spalle indifferente e ordinò un’altra birra. L’ultima.
Quella sera fu un disastro.
Il giovane ardeva dalla voglia di leggere il libro.
La copertina blu gli piaceva e anche la figura di donna stampata sopra
stimolava sensi nascosti, per lui indecifrabili, e se lo rigirava tra le mani,
e ne scorreva le tantissime pagine con il viso pronto a ricevere il loro fresco
alito, quello decantato, raccontato, mitizzato. Si convinceva di più e ancora
di più che aveva proprio voglia di leggere un libro: quel libro. Ce la farò?,
si chiedeva un attimo dopo, vedendolo sul comodino alto un bel po’ e compatto.
Fece dei calcoli e usciva fuori che se avesse letto 5 pagine al giorno
l’avrebbe finito dopo 168 giorni (le pagine erano 843 per l’esattezza), cioè
cinque mesi circa. Cinquemesi? gridò.
Qualcuno bussò forte alla parete: silenzio!
è ora di dormire, disse una voce
attutita. Cinquemesi?, ripeté a voce
sommessa. E se muoio prima?, si disse. Fece una smorfia con le labbra, in fondo
era un’ipotesi assai remota, i giovani non muoiono tanto facilmente. Si
convinse che non sarebbe morto e che ce l’avrebbe fatta a conoscere il finale
di quella storia che dal titolo pareva proprio un giallo con un morto e un
colpevole. Pensò al Palazzo di giustizia, e al Giudice, e una gran
soddisfazione gli montò dentro e avvertì un caldo così piacevole che ci scappò
una risata. Era di nuovo la bibita frizzante. Ricomposta la mente, e i sensi,
decise che le pagine da leggere dovevano essere non meno di 10. In fondo non sono poi
tante - si fece coraggio - se leggo una pagina al minuto mi ci vogliono dieci
minuti e dieci minuti al giorno sono niente, uno starnuto appena. Gli occhi del
ragazzo brillavano, aveva capito finalmente perché la gente leggeva così tanti
libri: perché è un gioco da ragazzi. Leggendoli con dieci minuti al giorno puoi
divorare intere librerie. Si lavò i denti, diede una rassettata ai capelli, e
felice fino all’orlo si infilò nel letto. Tutti affermavano di leggere prima di
dormire, quindi evidentemente era quella la situazione migliore, la più adatta,
pensò.
Faticò a trovare la posizione perché la luce non
arrivava a sufficienza sul libro, il materasso pendeva da un lato e le coperte
gli davano fastidio, si mise di lato - prima il destro poi il sinistro -
supino, prono (ma capì subito che quest’ultima posizione gli avrebbe procurato
una cervicale da paura), e dopo vari rivoltamenti e aggrovigliamenti di
lenzuola, con un inizio di nevrosi immediatamente soffocata, pervenne ad un
buon compromesso. Era mezzo di lato e mezzo supino. Riprese a respirare
tranquillo.
Lesse la prima pagina di corsa perché aveva già perso
del tempo prezioso - sebbene, si disse confortante, i dieci minuti dovevano
calcolarsi di sicuro dal momento in cui iniziava a leggere, non certo prima - e
di corsa anche la seconda, e controllando l’orologio capì che era in orario,
forse una manciata di secondi in anticipo; sarà bene accelerare, disse, e forzò
la lettura della terza e della quarta pagina. Alla quinta avvertì una prima
confusione sui nomi, e dei luoghi anche. Il tutto si svolgeva in un Paese a lui
ignoto, e i nomi delle vie e delle piazze lo incagliavano, e soprattutto lo
confondevano e lui li saltava, apparendogli inutili: ma la confusione restava.
Si parlava anche di poesia e di
giovani poeti: e che ne poteva mai sapere. Meglio così, pensò, imparo due cose
insieme. Era in anticipo sul cronometro e tornò indietro (farò presto, pensò).
Invece si incartò sulla terza pagina perchè rileggendola gli sembrava
necessario ritornare alla seconda e, da lì, alla prima, ed erano trascorsi
cinque minuti, gliene restavano altri cinque ed era tornato al punto di
partenza. Imbizzarrito, lesse come un forsennato tutte le pagine fino alla
decima, e si fermò. Non aveva capito niente. Chi e cosa si faceva in quello
strambo Paese sconosciuto si accavallavano, e più cercava dei personali punti
di riferimento più ogni cosa lo lasciava indifferente, perché in fondo a lui
che gliene fregava delle vite altrui. Forse non gli importava nulla dei libri
se non erano altro che racconti delle vite di certi sconosciuti. Un accesso
d’ira lo conquistò tanto da gettare via il libro che cadde con un tonfo; poi il
ragazzo scoppiò a piangere. Piangeva davvero, nascondendosi sotto il cuscino,
nascondendosi alla sua vista, e piangeva balbettando la sua ignoranza, e la
stupidità pure, e di fronte a sé vedeva una muraglia prima d’acqua e poi di
cemento e poi di fuoco, una muraglia impossibile da superare, mentre lui
sarebbe rimasto lì, nell’angolo, a invecchiare. E, per di più, senza aver letto
un solo libro, uno qualunque. E quando smise di piangere si addormentò
profondamente.
Il giorno dopo, puntuale, era davanti al Giudice Tal
dei Tali.
Il Giudice in questione godeva di una accentuata,
seppur nascosta, sensibilità, che lo avvertiva degli umori intorno a lui. Che
c’è?, chiese al ragazzo, qualcosa non va? Nulla, va tutto bene, rispose; non ti
credo, gli fece il Giudice, sembri sul punto di scattare come una molla,
qualcosa è successo. Attese. La lista?, cambiò discorso il ragazzo; non c’è,
disse irritato il Giudice guardando certe carte che aveva sul tavolo, torna
domani. E se non tornassi?; beh, sarebbe peggio per te, lo sai. Il giovane si
mosse nervoso, era la prima volta che manifestava sentimenti ostili, sembrava
giunto al picco della pazienza, e non c’era da dargli torto dopo tanto tempo
per avere una semplice lista di libri. Una semplice lista di appena qualche
libro leggibile. In fondo lui non aveva chiesto niente, era stato l’altro a
solleticarlo. Nel frattempo, gli disse il ragazzo, non potrebbe dirmi come si
fa a leggere un libro? Il Giudice Tal dei Tali si insospettì. Perché hai
comprato un libro? gli chiese. Ma no che dice! fece secco lui, senza la sua
lista che libri vuole che io compri, lo chiedevo così, per anticipare i tempi e
quando avrò la lista potrò iniziare subito. Il Giudice finse di crederci. Per
leggere bene un libro, gli disse severo, non devi far altro che pensare alla
tua vita. E tacque come suo solito. Alla mia vita? disse il ragazzo alzandosi,
vistosamente adirato, mi prende in giro? ma non parlano i libri della vita di
altre persone? Il Giudice conservò la calma e l’equilibrio propri facendogli
intendere con uno sguardo più comprensibile delle parole che aveva espresso la
sua opinione e null’altro v’era da dire al riguardo. Ora vattene, gli intimò.
Il ragazzo se ne andò furioso. Sulle scale incrociò i suoi abituali estimatori
ai quali non diede un minimo di confidenza e uscendo sentiva che bisbigliavano:
c’era da immaginarselo, ne avrà fatta una
delle sue quel vecchio gufo. Eppure lui non ce l’aveva con il Giudice.
Avrebbe dovuto avercela, perché era stato più provocatorio del solito, più
arrogante, e di nuovo aveva rinviato la lista lasciandolo sulla corda in
un’attesa infinita e straziante, come un feto che non nasce mai. Eppure sapeva
che a voler menar le mani si sarebbe dato volentieri un bel pugno in un occhio.
Fuori il tempo era incerto, nuvole veloci andavano e venivano e non riuscivi a
goderti un po’ di sole o un cielo scuro per più di un minuto, che quello
cambiava. I suoi sentimenti cambiavano, con la stessa velocità. Si appoggiò ad
un lampione a guardare uno per uno chi gli passava davanti. Gli occhi, il
taglio dei capelli, la forma della mascella, l’andatura, e provò a immaginare
le loro vite, le case, gli arredi, le famiglie, arrivando alle parentele fino
al terzo grado. Ogni tanto le paragonava alla sua, e, quindi, alla sua
famiglia, e se possibile verificava le analogie per lui di maggiore interesse.
Pensò al carcere, che in fondo è un’esperienza non proprio frequente in certi
ambienti. Si immaginò una cosa simile per il figlio presunto di una signora
davanti ai suoi occhi, vestita con una bella gonna ed una borsa capiente. La
vede disperata davanti ad uno specchio dopo la chiamata dei poliziotti che il
figlio era in stato d’arresto; anzi la immagina seduta sul water, pensosa, e
poi la vede uscire di corsa, andare dalla vicina per chiederle un favore, sa! avevo promesso a mio marito la
parmigiana e mi dispiacerebbe se ..., e la vicina la rassicura. Ora la
signora a passo veloce entra in un portone elegante con i numeri al posto dei
nomi, si è fatta riconoscere accolta da un gridolino di piacere. L’attende sul
primo pianerottolo una signora molto anziana dai capelli argentati ed un
bastone bello grosso. Saluti, convenevoli, occhiate prolungate per scrutare ciò
che non viene detto, per assaporare sicuramente dei ricordi troppo lunghi da
sbriciolare lì in quel momento sul pianerottolo, in così troppo poco tempo. C’è
qualcosa che agita, s’intuisce. Le due donne sono dentro, è percepibile una
conoscenza di molti anni, forse l’anziana era stata una insegnante o chissà,
l’importante è che resta un affetto sicuro, e a lei, a quella più giovane, ora
interessa il nome di un avvocato bravo, non troppo caro, però, hanno di quegli
onorari, mio figlio ha avuto un problema, l’hanno arrestato, non credo sia una
cosa grave, lo conosco. La donna evita le lacrime, resta composta, ma
addolorata sì, si vede e la donna anziana non si perde in inutili domande,
chiama subito, ha conoscenze ottime, e discrete, può andare lì anche adesso, ha
giusto un’ora libera. Che fortuna! qualcosa gira per il verso giusto. La madre
in ambascia ha una gratitudine seria, visibile, assicura visite meno frettolose
e sgattaiola con qualche imbarazzo di riserva, e va dall’avvocato, gentile,
rassicurante. Sa, oggi si arresta per niente, vedrà che è stato un equivoco
presto sarà libero. La signora torna a casa, raccoglie la spesa dalla vicina,
prepara la parmigiana, ragguaglia il marito, lo calma, espande discorsi
ragionevoli, stempera reazioni impulsive. Poi, lo accarezza sulla testa mentre
lui finisce la parmigiana, sazio, e si distrae con la televisione, e lei va a
struccarsi. Dice. Finalmente può sedersi di nuovo sul water a piangere,
disinvolta, libera. Soddisfatta. Il giorno dopo l’avvocato va al parlatorio, le
cose si schiariscono verso il meglio, si aggiustano, dovrà stare un altro giorno
ancora e quasi sicuramente sarà libero. Il ragazzo è raggiante torna in cella e
trova uno nuovo, della sua età, che ha voglia di parlare, di comunicare la sua
esperienza, si ritrovano, l’altro non immaginava una tale accoglienza e gli
racconta subito cosa è successo, una lite con un carabiniere, i soliti stronzi.
Provocano apposta, dice il nuovo. L’altro conferma. Si guardano per conoscersi,
ripromettono di rivedersi fuori, sopraggiunge una nebbia prima a banchi poi
sempre più fitta, e infine le immagini si interrompono improvvisamente e così
l’invenzione, e il giovane torna a essere in mezzo alla strada appoggiato al
lampione: ma quello sono io? pensa il ragazzo; come ci sono finito nella storia
del figlio della signora. La confusione regna sovrana quando le vicende si
intrecciano e si incontrano secondo ordini naturali che a noi sembrano tanto
complicati, anzi assurdi, biechi, sadici. Finzione, realtà, vita inventata e
vita reale, un guazzabuglio infinito. Il giovane iniziò a capirci qualcosa, o
perlomeno così gli parve, azzardò delle ipotesi mentali e occorre dire che dei
lumicini si accesero. Questo fatto di ritrovarsi in carne e ossa e con la sua
notte di nero carcere dentro una storia inventata (ma era poi realmente
inventata?) aveva smosso la sabbia, e rimestato lì dentro dove qualcosa si
trova sempre. Non attese oltre, e corse a casa.
Michele Mocciola
(fine
seconda parte - continua)